La casa editrice
Urogallo fa un regalo ai suoi lettori e dà loro la possibilità di scaricare
gratuitamente dal sito gli estratti dei libri in pubblicazione. Incuriosite da
questa bella iniziativa, siamo rimaste piacevolmente sorprese dalla prosa
eclettica, verbosa, a tratti sconnessa di un autore angolano, quasi completamente
dimenticato dal panorama italiano: João Melo. Vi proponiamo
uno dei quattro racconti della raccolta L’uomo
dallo stecchino in bocca, certi di incontrare il vostro interesse, sebbene
l’immediatezza comunicativa e la prosa tagliente del nostro autore richiedano di
certo uno sforzo per apprezzarne il valore.
Un Paese in cui
se dici “Touareg” si pensa a una “macchina da amante” non è un Paese!
Ovviamente non sono stato io a dirlo. È anche vero che, non è stato nessuno a
dirlo, visto che una delle virtù tipiche degli angolani, è quella di essere
discreti e di sapersela cavare. Questo ha permesso loro di sopravvivere a tutte
le sventure che, nei secoli, li hanno costantemente perseguitati. Intanto, non
riporterò qui tali sciagure poiché, come mi ha garantito una stimata
professoressa, la letteratura non si può limitare a essere una mera
trascrizione della realtà. Inoltre, ciò che per qualcuno è sfortuna da altri
può essere considerato un giusto e meritato castigo. Chi può comprendere in
modo pieno e soddisfacente i meandri della mente umana? Allora scrivo: lo sfogo
si limitò a svolazzare dentro la testa del vecchio Zacaria, come un uccello del
malaugurio, quando vide scendere
elegantemente dalla jeep verde bottiglia, lucidata a specchio quella mulatta
slanciata, dalla chioma fulva, con le labbra scarlatte, gli occhi scuri, l’abito
che le scivolava morbidamente sul corpo e le scarpe alte e sottili. La scena scorse
lentamente, come in un film al rallentatore ed ebbe un impatto olistico:
tutt’intorno, gli uomini si fermarono e si concentrarono sulla straordinaria
figura che sembrava uscita da un universo sconosciuto; le donne si sentirono
stranamente violentate e persino i cani smisero di abbaiare. Fra i denti, il vecchio
Zacaria mormorò con esitazione una parolina proibita, che il decoro mi impedirebbe
di scrivere nel testo: «Cazzo!» Si dice che da quel giorno il vecchio Zacaria
impazzì definitivamente. Niente di tutto ciò. Niente di tutto ciò. Ancora una
volta, non sono stato io a proferire questa frase piena di angoscia. Il suo
autore è Romero O Kota, al quale adesso cedo la parola. Agisco – devo
dirlo – con le migliori intenzioni, poiché, credetemi, fare il narratore non è
facile. Siamo malvisti da tutti. Alcuni pensano che abbiamo qualcosa a che fare
con l’autore, quando questi, per regola generale, altro non è che un povero disgraziato,
come nel mio caso. Cerco di spiegare chiaramente che, quando scrivo, sono posseduto
da una sorta di spirito che desidera soltanto la mia disfatta, ma nessuno crede
nella mia innocenza. Altri giurano e spergiurano che cerco vigliaccamente di
nascondermi dietro ai personaggi. Cito Jorge Amado e Agualusa per affermare che
sono i personaggi a comandare la narrazione, ma, dato che i lettori non
conoscono nessuno di questi notevoli scrittori, mi accusano di essere un
bugiardo compulsivo. Ripeto: la vita del narratore non è per nulla facile. D’altronde,
non a caso, l’opinione pubblica afferma perentoriamente che la bugia è come la
valanga; più rotola, più s’ingrossa. Odio questa presunta verità, anche perché
nulla posso contro di lei. È difficile affrontare verità presunte.
Ora, la parola a
Romero O Kota. Conobbi Zacaria alla vecchia Fazenda e Contabilidade.
Un funzionario esemplare. Adesso pare una banalità. Le parole, a forza di
ripetizioni, perdono l’anima. I comizi sono sempre grandiosi. I capi sono
sempre chiaroveggenti. I mariti, alla loro morte, vengono ricordati per essere
stati in vita oculati capi di famiglia. Una volta non era così. Ma Zacaria era
davvero esemplare. Non fu mai promosso direttore dei servizi solo perché era
nero. Per questo, non gli piacevano le ingiustizie. Non lo sapeva nessuno.
Soltanto io. Zacaria era legato alla rete clandestina che appoggiava la
guerriglia della 1° Regione. Nascondeva in casa sua, nel Bairro dos Saiotes, a
Luanda, dei guerriglieri che penetravano furtivamente in città, alla ricerca di
viveri. Regolarmente, nei fine settimana, andava fino a Caxito, ufficialmente
per fare un picnic con la famiglia ma, nel cammino, si incontrava coi
guerriglieri. Quando la PIDE lo scoprì, Zacaria venne catturato. Si fece tre
anni di galera. È questo che lo ha lasciato frastornato. Mi ricordo come se fosse
oggi il giorno in cui uscì. Accompagnai sua moglie, che lo era andato a prendere
al carcere di São Paulo. Si abbracciarono silenziosamente. Poi, mi strinse la
mano. Invece di un sorriso, giuro che vidi sulla sua bocca, in sordina, una parola
che non avevo mai sentito prima: «Cazzo!». Non fu la prigione che lo fece
impazzire, nossignore. Quando lo conobbi, parlava già a vanvera. Ma era un
grande ipocrita… Sembrava tutto perfettino, ma dalla sua bocca usciva tutto e
niente… Addirittura, a volte, sobbalzavo alle parolacce che diceva… Quando tornava
dal lavoro, farneticava sempre… Quando scopavamo (scusatemi ma, sinceramente, non
abbiamo mai fatto l’amore), diceva: «Cazzo! Cazzo! Cazzo!» Non sbagliatevi: le
inusitate rivelazioni già citate le ha fatte la moglie del vecchio Zacaria; la
quale aggiunge anche quest’altra citazione estratta dal repertorio escatologico
del marito: «Quando se ne vanno questi coloni di merda?». Questa domanda era
sempre sulla sua bocca. Penso che sia per questo che era mezzo suonato. Sì, è
vero, era anche un funzionario esemplare. Il suo capo, un bianco di Trás-os-Montes,
diceva che era un nero civilizzato. Addirittura lo invitò a una festa. Ma
Zacaria non ci andò. Era un cospiratore. Tuttavia, a tutt’oggi non ha mai
apprezzato veramente qualcuno. È cambiato soltanto dopo la Dipanda. Una
metamorfosi totale: lo Zacaria che ho sempre desiderato ma che ho avuto soltanto
per un lasso di tempo breve quanto un sogno mattutino. Si ammansì. Addirittura,
quando tornava a casa, salutava. Confesso: ho nostalgia di quei baci calmi e
umidi sul mio viso!… Cominciò a preoccuparsi dei figli. Un giorno, dopo aver
fatto l’amore, finalmente esclamò: «Ti amo, donna!». Tuttavia, la Dipanda finì
velocemente. Per me, terminò il giorno in cui Zacaria tornò a casa e non mi
baciò. Cominciò a urlare (questo verbo mi piace poiché si confà al nostro lato
animalesco): «Chi si credono di essere questi? Siamo noi che abbiamo sopportato
questa merda mentre loro erano là fuori! Che cosa ne sanno loro? Niente! Perché
adesso ci allontanano?!…» E, come al solito: «Cazzo!». Il narratore si
compiace, per non aver ancora chiamato il vecchio Zacaria “Compagno Cazzo”,
come si diceva all’epoca, o “Dottor Cazzo”, come raccomandano gli standard di adesso,
ricreati dai giovani infatuati post-socialismo, ma la stimata professoressa di
letteratura nuovamente gli ricorda: «L’eccesso di ovvietà cancella la realtà…».
Per cui è meglio che non interferisca nella storia del vecchio Zacaria.
Eppure non
riesco a fare a meno di raccontare, pur rischiando di essere additato per
strada come letterale, che egli quando seppe, qualche mese dopo l’indipendenza,
che il suo nuovo direttore era un vecchio servitore della divisione dove
lavorava, riuscì a ottenere l’esonero e cominciò a lavorare come contabile.
Così tirò avanti i primi quindici anni di indipendenza, sopportando, come quasi
tutti, sacrifici veramente straordinari, ma senza mai chiedere nulla a nessuno.
Quando l’avventura socialista venne sostituita dalla cosiddetta democrazia e
poi dal capitalismo, iniziò a diffidare dei nuovi discorsi, visto che dietro
vedeva le stesse maschere di sempre, il che gli faceva venire una voglia matta di
emettere i suoi famosi “cazzo”. Tanto che, davanti al caos generale che si era
diffuso nel paese pensò che era tutto definitivamente perso. Informò i suoi
clienti che non avrebbe più lavorato per loro, collocò i suoi libri di
contabilità nel fondo di un cassetto qualsiasi e cominciò a sedersi tutti i pomeriggi,
immancabilmente, nel balcone dell’appartamento in cui viveva, godendosi il
movimento della città con l’aria sinceramente compunta di chi si trova alla
veglia funebre di qualcuno che gli è stato molto caro. A chi lo osservava dalla
strada, sembrava che un’ombra senza colore avesse avvolto completamente la sua
figura fragile e triste. Doveva trattarsi di sofferenza. Fu da questo balcone
che il vecchio Zacaria vide la mulatta dalla capigliatura fulva scendere dal Touareg,
alle tre del pomeriggio, a Luanda, come se si stesse dirigendo a una serata di
gala a Hollywood. Una puttana, di certo. Un uccello del malaugurio sbatté le
ali dentro la testa del vecchio Zacaria.
Egli non lo sentì. Indolenziti e lenti i pensieri dentro la sua testa: «L’Angola
è perduta… Un Paese dove una jeep Touareg è una “macchina da amante” non è un
Paese!… Che vergogna!… Sarà l’amante di qualche generale, qualche ministro, qualche
trafficante di diamanti o chissà che!… Guarda un po’… questo è il vestito da
usare a quest’ora, con tutto questo sole, questa polvere, questa spazzatura,
questo degrado?». Degrado. Questa parola perseguitava da molto tempo il vecchio
Zacaria. Nella sua testa assumeva varie forme. Come direbbe la professoressa di
letteratura, era una parola multiforme o polisemica. La cosa peggiore era il degrado
morale. Non ci sono più principi. Non ci sono valori. Tutto vale. Dove s’è mai
vista, all’epoca, una puttana andare con una jeep come questa in pieno giorno? La
donna camminava verso il palazzo dove abitava il vecchio Zacaria prima
dell’indipendenza. Quando i coloni e i loro scatoloni se ne andarono, nel ’75,
non volle occupare nessuna casa. Quell’appartamento gli bastava, a lui e alla sua
famiglia: donna Domingas, già deceduta, il figlio scomparso in guerra e la
figlia buttata fuori di casa il giorno in cui lei gli sbatté in faccia questa
frase strana: «Papà, sei fuori dal mondo!» Il vecchio Zacaria non ammetteva
frasi ambigue. Per lui, pane al pane, vino al vino. Dalla terrazza che da tempo
aveva trasformato in una specie di osservatorio del degrado quotidiano che
stava inesorabilmente espandendosi per la città, accompagnò con lo sguardo la
donna dalla capigliatura fulva e gli occhi scuri che si dirigeva verso il suo
palazzo. Adesso che viveva solo, senza nessuno che potesse civilizzare il suo
linguaggio, poté esclamare, con un misto di sollievo e di rabbia: «Cazzo!» Il
resto della storia è veloce. Due scampanellate. Chi sarà? Da secoli, quasi, nessuno
lo andava a trovare. «Violante!?» La figlia cacciata di casa. Capigliatura
fulva, occhi scuri, abito che le scivola morbidamente sul corpo, scarpe alte e
sottili. Un sorriso che gli acceca lo sguardo. Ditemi, cari lettori: come reagireste
se foste al posto del vecchio Zacaria?
(Racconto
incluso nella raccolta L’uomo dallo
Stecchino in Bocca, Edizioni Urogallo, 2010, traduzione dal portoghese di
Donatella Orioli)
Per maggiori
informazioni sull’autore e sulla raccolta di racconti, si veda il sito della
casa editrice Urogallo.
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