giovedì 16 agosto 2012

"A última vez que vi Macau" si distingue con menzione speciale al Festival del cinema di Locarno


Il film portoghese A última vez que vi Macau, di  João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata, – che in ottobre aprirà la decima edizione di DocLisboa – è sbarcato al Festival di Locarno (1-11 agosto 2012), aggiudicandosi il premio per la miglior regia e una Menzione speciale “allo straordinario personaggio di Candy  per la sua forte presenza attraverso l'assenza, che risuona per la Giuria come la dimostrazione dell'immenso coraggio del cinema portoghese in un periodo nel quale gli insuccessi dei governi e dei sistemi sociali minacciano l'arte cinematografica”.


I registi e interpreti portoghesi João Rui Guerra da Mata e João Pedro Rodrigues incantano Locarno presentando l'intenso A ultima vez que vi Macau, viaggio emozionale da Occidente a Oriente originato da un'email in cui una donna stabilitasi a Macao contatta un conoscente, anche lui un tempo residente laggiù. L'uomo, che da più di trent'anni ha fatto ritorno in Portogallo, decide di accorrere in aiuto dell'amica, Candy. Il viaggio in nave per raggiungere l'ex colonia del Portogallo è occasione di ricordo dei momenti felici vissuti a Macao. Al suo arrivo, però, l'uomo scopre che l'amica è misteriosamente scomparsa e la città è popolata da misteri che terrorizzano gli abitanti.
Melodramma-noir raffreddato ed estremamente cerebrale, coraggiosamente eccentrico, una scommessa che si avvicina (nel suo abbinare camp, sperimentalismi e citazionismi del grande cinema hollywoodiano) a un altro strambo film portoghese visto quest’anno a Berlino, Tabu di Miguel Gomez. Dei due registi, João Rui Guerra da Mata è quello che ha vissuto la sua infanzia e adolescenza a Macao, per poi andarsene via nel 1990, con il definitivo ritorno di quella che da quattro secoli era colonia portoghese alla madre-matrigna Cina. Un trasferimento di sovranità che ha significato la fine di un mondo coloniale e l’inizio di una Macao versione Las Vegas asiatica. Il regista è anche il protagonista invisibile di questa pellicola, ne vediamo sì e no l’ombra, ne udiamo solo la voce narrante che dipana la storia, ne ricostruisce gli antefatti e ne racconta lo svolgersi.
Una finzione ricostruita attraverso un quasi-documentario, dimostrando di sapere cos’è il cinema e quanto esso sia naturalmente ambiguo. Sta anche qui il fascino enorme di questo film così iperconsapevole da sfiorare il metacinema, eppure percorso da una continua tensione e passione tra il romantico e il surrealista. In questi frangenti si vede la mano di João Pedro Rodrigues, che si conferma un grande autore.
La ricerca continuamente frustrata di Candy attraversa tutta questa città impossibile, consentendo ai due registi di esplorarla oltre ogni possibile cliché, di mostrare luoghi della nuova Macao e di quella coloniale ormai in disfacimento, ombre che si aggirano in cunicoli, docks deserti, locali equivoci e minacciosi, cani inselvatichiti, topi e insetti. Macao come teatro di fantasmi, di ombre, dove tutto è già accaduto e tutto potrebbe di nuovo accadere. Uno di quei luoghi dell’ambiguità e del pericolo, come sospesi nel tempo e nella storia, che il cinema ci ha consegnato più volte: prima fu la Amburgo di Von Stronheim poi la Shanghai di von Sternberg, la Salonicco di Pabst, la Tangeri di Bertolucci, la Casablanca di Curtiz. Finirà in dramma o meglio nel nulla. Da Macao non può esserci ritorno, perché è il non luogo per eccellenza.
Film formidabile, di quell’austerità estrema che è del cinema portoghese (ci vuole coraggio a realizzare un film in cui il protagonista è invisibile), ma che ci racconta anche una storia, seppure non sempre trasparente nei suoi passaggi. Film che entra e dissolve e che, nonostante corra sempre il rischio di essere saggio, deriva sperimentale, specchio criptico, non ne resta prigioniero; anzi forse rende prigionieri anche noi di lui stesso. Piccolo capolavoro. (Recensione di Erik Negro. Fonte paperstreet.it)


Per visualizzare il trailer del film cliccare qui.

Dopo 30 anni mi ritrovo a Macao, dove non tornavo dai tempi della mia infanzia. Più o meno una settimana fa, a Lisbona, ho ricevuto un’e-mail da un’amica che non sentivo da molto tempo. Sapevo che Candy era partita per l’Oriente, forse per il gusto dell’esotico, o alla ricerca di una vita più facile. Fatto sta che ne avevo perso le tracce. Nell’e-mail mi diceva che ancora una volta aveva incontrato gli uomini sbagliati, ma stavolta le conseguenze erano molto serie: un carissimo amico era stato assassinato durante un’innocua partita a flash ball e lei temeva di essere la prossima vittima. Io ero la sola persona di cui potesse ancora fidarsi. Mi pregava di andare a Macao dove, secondo le sue stesse parole, stavano succedendo cose “strane e inquietanti”. Affaticato dalle molte ore di volo, mi dirigo verso Macao a bordo di un aliscafo che mi riporterà indietro nel tempo, ai giorni più felici della mia vita (João Rui Guerra da Mata).


  

martedì 7 agosto 2012

Novità di settembre: "Racconti" di Álvaro do Carvalhal

La casa editrice livornese Vittoria Iguazù a settembre accoglierà nel suo catalogo editoriale la prima pubblicazione di narrativa portoghese, Racconti di Álvaro do Carvalhal.Vi proponiamo l’incipit di uno dei racconti contenuti nella raccolta, Il pugnale di Rosaura (traduzione dal portoghese di Clelia Bettini), certi di suscitare il vostro interesse nel continuare nella lettura.

EVERARDO
L’aurora gettava ormai la sua luce livida sui picchi piramidali delle montagne, quando, intorpidito e turbato dai vapori infetti dell’orgia, entrai nel mio camerino. Al frusciare della cortina, accortasi della mia presenza, Rosaura soffocò in fretta il pianto ostinato e sciolse sulle spalle i lunghi capelli corvini, fissandomi col volto acceso da un miscuglio di sentimenti contrastanti. Riposava il corpo lascivo fra i morbidi cuscini di un ricco divano, la stoffa soffice della sua vestaglia non nascondeva ai miei occhi le sue dolci curve, i contorni di una figura che ricordava d’immediato la voluttuosa negligenza di un greco ideale di bellezza. Tuttavia, nell’immobilità serena, nei capelli sparsi e nelle palpebre arrossate, in qualche lacrima che, ogni tanto, le tremava sulle guance come una bacca cristallina, trasparivano in modo inequivocabile i tormenti di una Maddalena pentita.
Rosaura possedeva nella fisionomia gentile la perfetta manifestazione della sua anima ardente. La sua era una natura straordinaria, per il complesso di elementi diversi e opposti che la componevano. Nobile orgoglio; immaginazione febbrile che facilmente si esacerbava nell’invenzione di cose impossibili, di fantasmi e altri orrori; un’impazienza delirante nell’aspirare all’ignoto propria di un’indole veementemente nervosa e sensibile; tutto ciò che di più dolce e pudico c’è nella vergine, condito magicamente con un tantino di libidinoso abbandono da peccatrice: ecco le qualità che mettevano in luce questa giovinetta così originale. Sapeva diventare selvaggia, quando accesa dalla gelosia! Ogni sospiro nascondeva una tempesta, una tempesta che un mio semplice gesto di tenerezza aveva il potere di scongiurare.Era cresciuta sotto l’influsso ardente del sole d’America, di quel sole potente che si infiltra nel sangue come una lebbra invisibile. E in questo risiedeva, a mio giudizio, parte del segreto della sua indole. A Óbidos, davanti alla maestosa imponenza del Rio delle Amazzoni, ci scambiammo i nostri dolci giuramenti. E, vittima del mio fascino, non volle lasciarmi mai più. Mi amava davvero! Di un amore folle, insaziabile e ferino.
A volte rientravo nel cuor della notte, stordito dal nettare di bacco che mi faceva delirare, e la vedevo corrermi incontro, agile ed elastica, come una pantera. All’improvviso, però, si sfogava in un pianto caldo di lacrime e, come una docile tortora che accarezza volontariamente l’ingrata prigione che la sottrae alla libertà, cadeva affranta ai miei piedi, come una schiava. Io ero allora come tutti gli uomini che, giunti infine alla meta agognata, intorpiditi, si abbandonano al molle abbraccio dell’indifferenza e della soddisfazione. Mi sentivo dunque sazio. Il fascino che esercitavo su quella poveretta era, lo sapevo bene, comparabile solo a quello che si attribuisce ad alcuni rettili americani. Era la fatalità della mala sorte che la avvicinava a me. E lei mi sfiorava le braccia come in preda alla febbre, come chi, incapace ormai di dolci speranze, non desidera altro che gettarsi in uno strapiombo. Era un amore così, indescrivibile, incommensurabile, unico. E tanto basta per soddisfare la più esigente delle vanità. Cosa mi importava se la festa e il funerale, il lutto e lo sfarzo si gemellavano in quel gran sentimento, se io ero l’oggetto di così straordinaria passione? La durezza del mio carattere, abbrutito da un godere meschino e sordido, stanco del rinnovo giornaliero di toccanti manifestazioni d’affetto, mi rendeva sprezzante e sarcastico; anche perché allora non potevo credere che una pena così piagnucolosa, certe lamentale così lambiccate che si manifestavano in mille modi stravaganti, non fossero che una commedia studiata a tavolino, parte di un’abile strategia messa in atto a mio danno. Ero in grado di comprendere il candore della povera vittima, anche nel marasma indistinto delle sue turbinose passioni; la credevo incapace di abbassarsi al punto di fingere; tuttavia, mentre la osservavo lamentarsi disperata, non riuscivo a reprimere il sospetto; provavo non so quale barbara soddisfazione nel tormentare con durezza le sue piaghe dolorose. Lontano è il giorno in cui rifiuterò l’incallita abitudine di considerare la donna un semplice oggetto di lusso; uno sfizioso giocattolo che noi uomini, in preda alla noia, possiamo impunemente frantumare con le nostre mani. Quella volta la sorpresi immersa nella riflessiva serenità del suo dolore, ma il mio cinismo non fu scosso dal minimo fremito di pietà. Anzi, la potenza del mio sdegno mi rendeva orgoglioso.
Fu per questo che, senza proferire verbo, mi avvicinai adirato ai torciglioni della modanatura di un trumaeu e, flemmatico come un eccentrico che si diletta allo scoppiare dell’imminente tempesta, sbuffai nuvole di fumo dal mio sigaro.
– Everardo! – mormorò soffocata.
– Rosaura! – dissi io, con freddezza.
Mi posò sulla spalle il braccio nudo, limpido e perfetto, quasi fosse opera di un artista, e con il volto offuscato di dolce malinconia, riproducendo con la voce le più soavi armonie musicali, esclamò:
– Sei adirato con me, Everardo? Che freddezza! Io ho passato la notte a pensare a te, che di sicuro non lo meriti… Non mi dai neanche un bacio dopo tante ore di assenza, neppure la più sciocca delle tue carezze!… Ma stai tranquillo, tesoro; sono allegra, vedi? Non mi lamento, te lo prometto… E come potrei, tu sei il mio dolcissimo Everardo! Allora, non mi dici neppure una parola dolce, non mi ripeti che sei e sarai per sempre mio, Everardo?…
Mi strinsi nelle spalle, sdegnoso.
– Sei proprio una bambina! Devo ripeterti ogni giorno la stessa solfa? Mi infastidiscono i tuoi dubbi, Rosaura. Quel che mi chiedi non può farlo chi abbia a cuore la propria reputazione di uomo sano di mente; chi, come me, ha ricevuto dal Creatore un genio, se non troppo sensato nell’uso rigoroso della parola, almeno ostile a ridicole estasi e odiose smancerie. Vorresti che restassi notte e giorno mano nella mano con te, in un serafico abbraccio, ad ascoltare il rumore delle foreste, il gemito del mare, il sospirare delle correnti, tutti i rumori della natura e altre belle cose, che tu sai, per convincerti che sono e sarò per te quello che ero all’inizio del nostro amore? Sono troppo giovane ancora per rinunciare così presto ai divertimenti con cui mi seduce la buona società. Voglio vivere.
– Vivere! La vita me la promettesti tu quando, con l’astuzia di un serpente, ti introducesti nella serena casa di mia madre, per contaminare col tuo respiro sordido i dolci frutti della mia primavera. La mia innocenza mi ha portato alla perdizione. Caddi perché non conoscevo il fuoco penetrante che consuma, nascosto fra le parole di una maligna seduzione. Ah! Allora non ti sentivi ridicolo quando sciorinavi le tue meraviglie che nella mia semplice esistenza non avevo neppure mai sognato; quando in ginocchio mi facevi dichiarazioni folli, impossibili, e mi stringevi al petto, tremante e in preda alla passione; quando, con voce dolce e vibrante, mi chiedevi ciò che io non sapevo negarti; perché la donna, se arriva ad amare, diventa cieca e si abbandona: anima, pudore, ogni cosa. E poi piange, perché sente di aver dato poco, di non aver più nulla da dare…
– Sciocchezze di gioventù!
– Allora non parlavi così. Eri…
– Un ragazzino.
– Due anni fa.
– La vecchiaia è arrivata in fretta.
– Di’ piuttosto la noia.
– Oh! Anzi il contrario.
– Ironia! Eri un ragazzino? Un ragazzino che sa ingannare e corrompere; che conosce tutti i sentieri del vizio; che, senza rimorso, mi ha sottratto a mia madre, a mio fratello, alla patria, per portarmi a fare una vita d’avventure per mare, isole e continenti, e per darmi infine disprezzo, quando chiedo elemosina, elemosina d’amore! I ragazzini sono ingenui, Everardo.
– Sono stato un’eccezione.
La ferì lo scherno che si celava in quella frase. Mi guardò con disprezzo e reclinò la testa, decisa a mettere fine a quel doloroso dialogo. Tuttavia, la parola “miserabile” si posò sorda sulle sue labbra.
Io cercai di sorridere, ma non ne fui capace. Ero in preda alla collera. (…)

Si veda la recensione di Gianluca Miraglia sul sito della casa editrice.