sabato 31 gennaio 2015

João Pina: fari puntati sul giovane fotografo portoghese dopo il successo del libro “Operação Condor”

Nove anni in Sudamerica per ricostruire la memoria degli eccidi dell’operazione segreta



C’è un giovane fotografo portoghese che ha i riflettori puntati su di sé, nel mondo. Si chiama João de Carvalho Pina: è nato a Lisbona nel 1980, si è formato all’International Center of Photography di New York specializzandosi in fotogiornalismo e foto-documentario nel 2005, dopo aver iniziato a lavorare a soli 18 anni. Col suo primo libro di fotografia Por Teu Livre Pensamento del 2007, in collaborazione con Rui Daniel Galiza autore dei testi, si era già fatto conoscere rastrellando prestigiosi premi in Europa e collezionando mostre. Ma non è di quel libro che ci accingiamo a parlare adesso, benché meriti senz’altro un approfondimento.

L’attualità ci spinge ora a occuparci del suo secondo, imponente lavoro, da cui è nato il libro Operação Condor con oltre cento immagini, oggetto anche di apposite mostre fotografiche. Sono state esposte finora al Paço das Artes di Rio de Janeiro, al Centro Cultural el Cabildo di Asunción nonché nella sede Moving Walls di New York, nell’ambito del progetto “Open Society Foundation” dedicato alla foto-documentario con particolare riguardo ai diritti umani. Sono proprio i diritti umani, o meglio la loro violazione massiccia attuata in nome del famigerato “Plan Cóndor”, a costituire il filo conduttore del lavoro di João Pina che per realizzarlo ha viaggiato quasi nove anni, tra il 2005 e il 2014, muovendosi attraverso Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Uruguay e Paraguay.

Questi sei Paesi del Sudamerica furono al centro di un’operazione segreta, condotta a partire dal 1973 e durata fino al 1980, quando erano al potere altrettante dittature di estrema destra: col determinante contributo da parte degli Usa, dove imperversava l’ossessione del pericolo comunista complice il clima della cosiddetta guerra fredda, venne pianificato il “piano Condor” teso a sbarazzarsi di tutti gli oppositori politici. Si calcola che almeno 60mila cittadini, sequestrati illegalmente, abbiano trovato la morte nei centri di detenzione clandestini benché ufficialmente siano stati dichiarati per lo più “scomparsi”.

Per poter ricostruire la memoria storica di quel periodo, il fotografo portoghese ha intervistato i sopravvissuti alle persecuzioni e i famigliari delle vittime, tuttora segnati da traumi profondi. Ha visitato i luoghi di prigionia e di esecuzione, le camere di tortura, le distese di tombe senza nome. La mappa di territorio in cui si è mosso Pina è davvero sterminata, visto che quegli anni di terrore hanno coinvolto aree che si estendono dalla foresta amazzonica brasiliana alle fredde lande della Patagonia.


Col suo lavoro ha  dato nuova vita a rari documenti d’epoca rintracciati oltre ai miseri resti umani o personali venuti alla luce, vuoi casualmente vuoi per l’ostinazione dei famigliari nella ricerca di una qualsiasi traccia lasciata dai loro cari prima di scomparire. Nel contempo ha immortalato i volti degli intervistati, i loro sguardi abitati da silenzi, indescrivibili a parole. João Pina era talmente determinato a realizzare il suo progetto che per poterlo tradurre in realtà, dopo il no di numerose case editrici contattate, ha raccolto i finanziamenti tramite ben tre campagne di crowdfunding cui hanno aderito 200 persone di una ventina di Paesi.

A spingerlo nel suo proposito, la speranza di riuscire a far conoscere alle ultime generazioni quanto accaduto nei loro Paesi a cavallo degli anni 70/80 quando un’intera generazione - fatta di giovani studenti, intellettuali, sindacalisti, medici, architetti, sacerdoti, artisti, poeti e scrittori - fu quasi spazzata via. Alcuni si salvarono espatriando, trovando asilo altrove. Il timore di Pina, condiviso da molti osservatori internazionali, è che una coltre di nebbia sia calata in Sudamerica col ritorno delle democrazie. Le amnistie approvate dai governi seguiti alle dittature con l’implicito intento di favorire una pacificazione sociale, di fatto hanno reso pressoché impuniti i crimini attuati in nome dell’operazione Condor, offuscandone i ricordi. A questo ha inteso rimediare Pina, offrendo un importante strumento di conoscenza ai più giovani.

La sensibilità del fotografo portoghese per i diritti umani è quasi incisa nel suo DNA, fortemente segnata dai racconti ascoltati in famiglia durante l’infanzia: entrambi i suoi nonni erano stati attivisti antifascisti e, in quanto iscritti al Partito comunista allora illegale, incarcerati sotto la dittatura di Salazar. Non a caso, nel suo primo libro Pina aveva documentato le storie di 25 ex prigionieri politici portoghesi, poi sfociate anche in una campagna pubblicitaria di Amnesty International.

Venendo a Condor, va detto che grazie all’ottima accoglienza registrata, oltre alla versione portoghese (edita da Tinta da China) il libro vanta anche versioni catalana e inglese (edite da Blume) oltreché un’edizione speciale in sole 100 copie per collezionisti, sempre di Blume. La prefazione è firmata dal giornalista americano del The New Yorker, Jon Lee Anderson, il quale scrive tra l’altro: «É o lado “esquecido” deste episódio da História contemporânea que este magnífico e inquietante livro de imagens de João Pina procura evocar».

La post-fazione porta la firma del noto giudice spagnolo Baltasar Garzón, salito alle cronache per aver spiccato un mandato d’arresto contro l’ex dittatore cileno Pinochet accusandolo della morte di cittadini spagnoli durante il suo mandato e per aver espresso il desiderio di sottoporre a giudizio l’ex segretario di Stato USA Henry Kissinger, proprio in relazione al “Plan Cóndor”. Chiudiamo questo post con queste sue fiduciose parole: «Todos os esforços e energias são necessários para que os olhares tristes e de dor infinita registados nas impressionantes fotografias de João Pina, neste livro, se transformem em sorrisos de esperança».

Per saperne di più: 

sabato 17 gennaio 2015

Tabucchi: dopo 20 anni "Sostiene Pereira" si trasforma anche in graphic novel e può attrarre lettori giovani

Edito da Tunué, lo adatta Marino Magliani e lo illustra Marco d’Aponte, la prefazione è di Paolo Di Paolo


Non sia mai che al diario portoghese sfugga una qualunque uscita legata al nome e all’opera di Antonio Tabucchi. La presentazione del suo romanzo più amato in versione graphic novel, avvenuta nell’imminenza delle scorse festività anche perché ben si adattava ad una strenna natalizia, non è passata inosservata agli occhi del nostro Blog che seppure in ritardo ne dà conto. Stiamo parlando di Sostiene Pereira pubblicato da Tunué nella Collana Prospero’s Books, in elegante edizione cartonata di 144 pagine in bianco e nero, 17 cm x 24.

La stessa idea di una traduzione a fumetti del romanzo “cult”, già immortalato nella sua versione cinematografica firmata da Roberto Faenza, ci è apparsa coraggiosa. Abbiamo pertanto cercato di saperne di più e in questo ci ha illuminato quanto scritto da Paolo Di Paolo che di Tabucchi fu amico senza mai smettere di considerarlo il suo maestro. A lui infatti è stata affidata la prefazione del libro nonché la recensione dello stesso, uscita sul Venerdì di Repubblica del 12-12-2014.  Prima di citare le sue parole, di rigore segnalare che l’adattamento del romanzo è di Marino Magliani, affermato scrittore e traduttore che vive in Olanda (Amsterdam è una farfalla, uno dei suoi libri più noti), mentre le illustrazioni sono del pittore e disegnatore torinese Marco D’Aponte (Tazio Nuvolari e Quattro giorni per non morire solo due esempi tra le sue precedenti opere).

«Un grande romanzo dall'indimenticabile atmosfera: qualcosa che ti resta incollato addosso alla prima lettura. Questa versione grafica riesce ad afferrarla, con un Pereira opportunamente diverso da quello a cui prestò il volto Mastroianni nel film di Roberto Faenza». Già in queste poche righe Paolo Di Paolo laurea a pieni voti la versione a fumetti del romanzo, sul cui titolo svela un particolare forse sconosciuto ai più riferendo che nel manoscritto originale, esposto a Parigi, fa effetto vedere il segno di penna con cui lo scrittore cancella un iniziale «Secondo Pereira...» per sostituirlo con la trovata felice di «Sostiene». Il riferimento è alla Mostra tenutasi a Parigi in occasione della donazione degli archivi dello scrittore italiano-portoghese alla Bibliothéque Nationale de France, voluta dalla vedova di Tabucchi, Maria José de Lancastre.

Di Paolo ha approfondito quanto espresso nella sua prefazione parlandone a Fahrenheit, la trasmissione di radio3 dedicata i libri, nella puntata del 5 gennaio u.s. assieme a Magliani e D’Aponte i quali hanno contribuito al dibattito rivelando dettagli interessanti. Marino Magliani ha detto di aver incontrato Tabucchi in un pubblico evento nel 2008 e di aver iniziato a conversare con lui sul modo in cui entrambi trattavano il tema del tempo nei rispettivi romanzi. Poi avevano iniziato a scriversi e l’idea del progetto di una versione graphic novel era piaciuta al vincitore del Premio Campiello '94 che ne aveva anche visionato alcune bozze prima della morte avvenuta nel 2012. Al libro ha collaborato il figlio Michele inviando del materiale iconografico. Magliani ha detto di essersi attenuto scrupolosamente ai testi, conscio che Mastroianni non dovesse costituire un modello poiché «solo nella trasposizione cinematografica si può essere più liberi di inventare», a quanto dichiarato da Tabucchi stesso in un’intervista.

Maggiore libertà creativa se l’è potuta concedere Marco D’Aponte, sbizzarrendosi soprattutto sui colori e sulle loro intensità, ma anche sulle figure che via via si evolvono, quella di Pereira in primis. L’impatto iniziale è con il cielo azzurro, più volte citato nel testo («di un nitore che quasi feriva gli occhi»), che deve essere azzurrissimo mentre nelle pagine seguenti assume le più varie colorazioni e si fa più scuro. L’uso della soluzione pittorica secondo il disegnatore è fondamentale e ne fa alcuni esempi. I capelli rossi di Marta che tanto avevano colpito Pereira cambiano sfumatura fino ad assumere quasi un’aura. I militari portoghesi che pattugliano la città si trasformano in figure inquietanti, in teschi. Per meglio rendere i poliziotti che irrompono in casa dove trovano Monteiro Rossi ricorre al bianco e nero. Infine, l’ultima pagina, quando il protagonista parte contemporaneamente all’uscita del quotidiano col suo necrologio-denuncia del regime, è tutta azzurra senza distinzione tra cielo e terra. E quando Pereira esce di scena, non è più quel placido personaggio tratteggiato all'inizio, ma si è trasformato anche fisicamente perché nel frattempo ha assunto vita propria. Secondo Paolo di Paolo,  D’Aponte è stato «molto bravo nel restituire a Pereira un’immagine molto consentanea alle note dell’autore, distaccandosi dal corpo di Mastroianni».

Torniamo al tema del tempo citato nella prefazione e molto sentito da Di Paolo, al punto da affermare: «Quello di Tabucchi è un libro sul tempo. All’uscita in Italia, vent’anni fa, i detrattori lo attaccarono come «un libro bugiardo sul rapporto fra letteratura e potere» che alludeva al presente (e alla discesa in campo di Berlusconi). Non era così. Basterebbe mettere in fila alcuni titoli di Tabucchi per capire: «Il tempo stringe, Si sta facendo sempre più tardi, Tristano muore, Il tempo invecchia in fretta». Nel corso della trasmissione radiofonica ha aggiunto che quello di Tabucchi è anche un romanzo sulla morte, tanto più che Pereira stava leggendo un saggio sull’immortalità dell’anima. L’idea del binomio tempo-morte come cifra che caratterizza il romanzo è condivisa -ha ricordato Di Paolo- anche dallo scrittore britannico Julian Barnes (autore molto amato di Livelli di vita e de Il senso di una fine) il quale riferendo di aver ricevuto Sostiene Pereira in regalo da un amico lo definisce, appunto, un libro sul tempo e sulla morte. «Lo dice -rafforza di Paolo- con una nettezza che non lascia dubbi».


Efficacissime, al riguardo, le righe della prefazione in cui si descrive così l’incontro del protagonista coi due attivisti politici: «Come un vento che scompiglia le carte sulla scrivania, quelle due giovinezze scuotono la vecchiaia di Pereira» e si cita testualmente il loro appello «La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro». «Pereira è ancora in tempo», conclude Di Paolo. Qui l’allusione è al potenziale avvicinamento del pubblico più giovane al romanzo che, a 20 anni dalla sua uscita e diventato ormai un classico della letteratura recente, resta attualissimo. «Sono sempre favorevole al riuso dei classici -ha dichiarato via radio lo scrittore- è bellissimo che siano toccabili e che un ventenne possa accostarsi magari dapprima col graphic novel, poi al romanzo perché passa per quell’atmosfera e ne viene conquistato».

sabato 10 gennaio 2015

Portogallo: è “corrupção” la palavra do ano 2014, seguita da “xurdir”

Il popolare sondaggio di Porto Editora giunto alla sua sesta edizione



È “corrupção” la palavra do ano 2014 in Portogallo. Una parola di facile comprensione ad ogni latitudine del mondo, ma evidentemente molto sentita anche nel Paese caro al nostro Blog, tanto da venire votata dal 25% dei 22.000 che hanno partecipato alla tradizionale iniziativa di Porto Editora, giunta alla sua sesta edizione. Quello con la palavra do ano è un appuntamento divenuto popolare in Portogallo dove la casa editrice Porto è considerata una sorta di patrimonio linguistico tramite la diffusione dei suoi vocabolari, noti sotto il nome di Infopédia e diffusissimi nella versione on-line, strumento indispensabile per chiunque studi o pratichi la lingua portoghese.

Nell’annunciare il risultato, ecco come Porto Editora definisce la parola eletta nel 2014: «Corrupção é um “nome feminino”, de origem latina, corruptione. Significados: “1. Acto ou efeito de corromper ou corromper-se; 2. Decomposição física de alguma coisa; putrefação; 3. Modificação das características originais de algo, adulteração; 4. Figurado: acto de corromper moralmente; perversão; 5. Estado do que é corrompido; 6. Uso de meios ilícitos para obter algo de alguém; suborno». La scelta caduta su corrupção non ha stupito più di tanto gli organizzatori del sondaggio che così la giustificano: «Os vários casos de suspeita de corrupção que foram sendo conhecidos ao longo do ano passado, e a consequente atenção dada pelos media que alimentou debates e conversas, terão influenciado a escolha feita pelos portugueses».

Corrupção ha battuto “xurdir”, seconda classificata col 22%. Questo termine riflette efficacemente il sentire comune diffuso nei Paesi in crisi economico-occupazionale, visto che nell’accezione comune significa «lutar pela vida, trabalhar sem descanso». Da notare che questo termine è ritornato da poco d’attualità, ripescato da antiche usanze soprattutto regionali poiché appartiene alla “língua mirandesa” parlata nel Nordest del Paese. Internazionale invece la parola terza classificata, con uno scarto minimo di voti rispetto a “xurdir”, anch’essa intorno al 22% circa. Si tratta di “selfie”, ovvero l’ossessivo autoritratto scattato dagli smartphone e fatto circolare in rete sia da vip sia da anonimi cittadini.

Fortissimo invece lo scarto di voti per tutte le altre sette parole in lizza, rimaste al di sotto del 10%. Andiamo per ordine: “basqueiro” (8%) termine informale sinonimo di “grande ruído ou agitação”, seguita da “ébola” col 6%, spauracchio di contagio temuto in larga parte dell’Occidente negli ultimi mesi. Più insolito il termine piazzatosi al sesto posto col 5% “cibervadiagem” che indica un fenomeno in costante aumento, vale  a dire “a vadiagem on-line feita durante o horário de trabalho ou escolar”. Non ha bisogno di traduzioni invece “jihadismo” (4%) circolato e temuto non meno di ebola. Pari merito al 3% si sono attestate le parole “banco”, “gamificação” e “legionela” (3%). Se banca e legionella non necessitano di spiegazioni, vale la pena soffermarsi invece su “gamificação”, termine decisamente moderno in quanto si riferisce all’utilizzo del meccanismo tipico dei giochi, estremamente diffusi in rete, da parte delle aziende che riescono ad ottenere in tal mondo maggiori risultati commerciali.

sabato 3 gennaio 2015

Azzorre: a Corvo, la più piccola e remota, ci sono spazi più sconosciuti della luna

Il diario dell’isolano svelato da Gonçalo Tocha nel film “É na terra não é na lua”


Azzorre, ultimo giro: concludiamo questa sorta di trilogia partita da São Miguel in compagnia del musicista-regista Zeca Medeiros e proseguita sulle orme di Carlos George Nascimento che lasciò Corvo bambino per emigrare in Cile, dove tuttora è ricordato come editore illuminato e scopritore di talenti. La sua isola natale era rimasta solo sullo sfondo del nostro racconto e ora ci ritorniamo per scoprirla assieme a un regista portoghese nato a Lisbona da famiglia azzorriana, proveniente da São Miguel. Gonçalo Tocha, classe 1979, passato alla regia dopo un’esperienza da apprezzato musicista, gode oggi di una consolidata reputazione di  “cineasta marinho”. Già il suo primo film, Balaou del 2007, lo vedeva solcare a bordo di una piccola barca quel tratto di Atlantico tra le Azzorre e il Portogallo per omaggiare la memoria della madre appena scomparsa.

L’attrazione per le isole, che lui considera barche ferme in mezzo all’oceano, lo ha spinto poi verso la più piccola e remota dell'Arcipelago. Più che un’isola, Corvo – ha osservato lo stesso Tocha in una delle sue numerose interviste – si può definire un  isolotto (um ilhéu), solo 17 km quadrati dove vivono 400 persone concentrate in un’unica località. Benché aspra e poco ospitale – di fatto è costituita dal cono di un vulcano estinto circondato dal suo grande cratere con un lago al centro – è abitata da oltre 500 anni da una comunità prevalentemente agricola. Complice l’estremo isolamento, da lì trapela ben poco, favorendo l’immagine di un posto fitto di misteri e antiche superstizioni ambientate in imprevedibili scenari naturali. Per meglio comprendere quanto Corvo sia estraniata dal mondo, e tenda pertanto a proteggersi dall’esterno, basti pensare che il solo turismo che conosce è quello giornaliero proveniente in barca dall’isola di Flores.

Come ha affrontato l’impatto con Corvo Gonçalo Tocha? Intuendo la diffidenza degli isolani di fronte all’arrivo di uno sconosciuto, ha adottato la tecnica documentaristica presentandosi con la cinepresa, accompagnato solo dal tecnico del suono e filmando a tappeto, al punto da raccogliere un diario che lui definisce un «archivio contemporaneo in movimento». In un’intervista all’agenzia portoghese Lusa ha dichiarato che Corvo «è uno dei pochissimi luoghi al mondo, in quanto microcomunità chiusa in se stessa, in cui può venire quest’idea un po' folle di filmare tutto». Sono serviti circa quattro anni, inframmezzati dall’andirivieni col Portogallo e da periodi stanziali per familiarizzare con la comunità, per completare “É na terra não é na lua” che ha fatto spiccare all’autore un deciso salto nel panorama cinematografico internazionale. Molti infatti i  riconoscimenti ricevuti: oltre a vincere il premio come miglior documentario nei rispettivi festival di settore di Lisbona, Madrid e San Francisco, ha ottenuto pure la menzione speciale della giuria al Festival di Locarno 2011.

Particolarmente lusinghiero il pezzo di critica cinematografica pubblicato dal sito del Festival elvetico, a firma del canadese Mark Peranson, il quale scrive tra l’altro: Tocha (con un fonico al seguito) si cala nei panni di un moderno storico sociale dell’isola di Corvo, filmando episodi legati al lavoro e all’artigianato locali (produzione di cappelli e di formaggio), ai costumi e ai rituali religiosi, ma riprende pure i paesaggi e la fauna, i bar, le feste e persino la vita politica. Ha anche intervistato – aggiunge – alcuni dei suoi residenti più anziani, estrapolando storie sul colorito passato dell’isola. Nel giro di tre ore e 14 capitoli, Tocha porta alla luce il processo attraverso il quale si è fatto accettare dalla comunità e costruisce un mosaico composto dagli abitanti dell’isola di Corvo. Ha realizzato – sentenzia – il film più entusiastico che vedrete mai nella vostra vita, trasmettendo amore per il luogo, le persone e, sì, anche per gli animali. Il documentario – conclude –  merita ogni secondo della propria durata e, nonostante ciò, è comunque troppo corto.