Nove anni in Sudamerica per ricostruire la memoria degli eccidi dell’operazione segreta
C’è
un giovane fotografo portoghese che ha i riflettori puntati su di sé, nel
mondo. Si chiama João de Carvalho Pina: è nato a Lisbona nel 1980, si è formato
all’International Center of Photography di New York specializzandosi in
fotogiornalismo e foto-documentario nel 2005, dopo aver iniziato a lavorare a
soli 18 anni. Col suo primo libro di fotografia Por Teu Livre Pensamento del 2007, in collaborazione con Rui Daniel
Galiza autore dei testi, si era già fatto conoscere rastrellando prestigiosi
premi in Europa e collezionando mostre. Ma non è di quel libro che ci
accingiamo a parlare adesso, benché meriti senz’altro un approfondimento.
L’attualità
ci spinge ora a occuparci del suo secondo, imponente lavoro, da cui è nato il
libro Operação Condor con oltre cento
immagini, oggetto anche di apposite mostre fotografiche. Sono state esposte
finora al Paço das Artes di Rio de Janeiro, al Centro Cultural el Cabildo di
Asunción nonché nella sede Moving Walls di New York, nell’ambito del progetto “Open
Society Foundation” dedicato alla foto-documentario con particolare riguardo ai
diritti umani. Sono proprio i diritti umani, o meglio la loro violazione
massiccia attuata in nome del famigerato “Plan Cóndor”, a costituire il filo
conduttore del lavoro di João Pina che per realizzarlo ha viaggiato quasi nove
anni, tra il 2005 e il 2014, muovendosi attraverso Cile, Argentina, Brasile,
Bolivia, Uruguay e Paraguay.
Questi
sei Paesi del Sudamerica furono al centro di un’operazione segreta, condotta a
partire dal 1973 e durata fino al 1980, quando erano al potere altrettante
dittature di estrema destra: col determinante contributo da parte degli Usa,
dove imperversava l’ossessione del pericolo comunista complice il clima della
cosiddetta guerra fredda, venne pianificato il “piano Condor” teso a
sbarazzarsi di tutti gli oppositori politici. Si calcola che almeno 60mila
cittadini, sequestrati illegalmente, abbiano trovato la morte nei centri di
detenzione clandestini benché ufficialmente siano stati dichiarati per lo più “scomparsi”.
Per
poter ricostruire la memoria storica di quel periodo, il fotografo portoghese
ha intervistato i sopravvissuti alle persecuzioni e i famigliari delle vittime,
tuttora segnati da traumi profondi. Ha visitato i luoghi di prigionia e di
esecuzione, le camere di tortura, le distese di tombe senza nome. La mappa di
territorio in cui si è mosso Pina è davvero sterminata, visto che quegli anni
di terrore hanno coinvolto aree che si estendono dalla foresta amazzonica
brasiliana alle fredde lande della Patagonia.
Col suo lavoro ha dato nuova vita a rari documenti d’epoca rintracciati oltre ai miseri resti umani o personali venuti alla luce, vuoi casualmente vuoi per l’ostinazione dei famigliari nella ricerca di una qualsiasi traccia lasciata dai loro cari prima di scomparire. Nel contempo ha immortalato i volti degli intervistati, i loro sguardi abitati da silenzi, indescrivibili a parole. João Pina era talmente determinato a realizzare il suo progetto che per poterlo tradurre in realtà, dopo il no di numerose case editrici contattate, ha raccolto i finanziamenti tramite ben tre campagne di crowdfunding cui hanno aderito 200 persone di una ventina di Paesi.
A
spingerlo nel suo proposito, la speranza di riuscire a far conoscere alle
ultime generazioni quanto accaduto nei loro Paesi a cavallo degli anni 70/80
quando un’intera generazione - fatta di giovani studenti, intellettuali,
sindacalisti, medici, architetti, sacerdoti, artisti, poeti e scrittori - fu
quasi spazzata via. Alcuni si salvarono espatriando, trovando asilo altrove. Il
timore di Pina, condiviso da molti osservatori internazionali, è che una coltre
di nebbia sia calata in Sudamerica col ritorno delle democrazie. Le amnistie
approvate dai governi seguiti alle dittature con l’implicito intento di favorire
una pacificazione sociale, di fatto hanno reso pressoché impuniti i crimini
attuati in nome dell’operazione Condor, offuscandone i ricordi. A questo ha
inteso rimediare Pina, offrendo un importante strumento di conoscenza ai più
giovani.
La sensibilità del fotografo portoghese per i diritti umani è quasi incisa nel suo DNA, fortemente segnata dai racconti ascoltati in famiglia durante l’infanzia: entrambi i suoi nonni erano stati attivisti antifascisti e, in quanto iscritti al Partito comunista allora illegale, incarcerati sotto la dittatura di Salazar. Non a caso, nel suo primo libro Pina aveva documentato le storie di 25 ex prigionieri politici portoghesi, poi sfociate anche in una campagna pubblicitaria di Amnesty International.
Venendo
a Condor, va detto che grazie all’ottima
accoglienza registrata, oltre alla versione portoghese (edita da Tinta da China)
il libro vanta anche versioni catalana e inglese (edite da Blume) oltreché un’edizione
speciale in sole 100 copie per collezionisti, sempre di Blume. La prefazione è
firmata dal giornalista americano del The New Yorker, Jon Lee Anderson, il
quale scrive tra l’altro: «É
o lado “esquecido” deste episódio da História contemporânea que este magnífico
e inquietante livro de imagens de João Pina procura evocar».
La
post-fazione porta la firma del noto giudice spagnolo Baltasar Garzón, salito
alle cronache per aver spiccato un mandato d’arresto contro l’ex dittatore cileno
Pinochet accusandolo della morte di cittadini spagnoli durante il suo mandato e
per aver espresso il desiderio di sottoporre a giudizio l’ex segretario di
Stato USA Henry Kissinger, proprio in relazione al “Plan Cóndor”. Chiudiamo
questo post con queste sue fiduciose parole: «Todos os esforços e energias são necessários para
que os olhares tristes e de dor infinita registados nas impressionantes
fotografias de João Pina, neste livro, se transformem em sorrisos de esperança».
Per saperne di più:
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