venerdì 27 dicembre 2013

"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" (terza parte)


   

      "Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" 

di 
Alice Vieira

(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)

Racconto tratto da 

"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"

Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro


Edizioni dell'Urogallo, 2013


“[…] Fu quella la settimana in cui mi veniva in mente di continuo mia madre.
E la nostra vita a Villa Vittoria.
Di mio padre ho pochi ricordi. O meglio, mi ricordo solo di lui seduto al tavolo della sala da pranzo e di mia madre che lo serviva.
Le domestiche andavano e venivano senza dire una parola, di molte di loro non ricordo né il nome né la voce. Facevano il bucato e lavavano le stoviglie, davano lo straccio e pulivano le pareti, riordinavano le stanze, cambiavano l’acqua ai fiori, lucidavano gli specchi, sbrinavano il frigorifero, sgrassavano il forno, spolveravano ogni angolo della casa affinché non ci invadessero gli insetti, ma la cucina era il regno indiscusso di mia madre.
Tra sere passate a guardare film e giornate passate tra bolliti, umidi, brodetti, pancotti, pasta sfoglia, panzerotti, crostate, mousse e budini, trascorsero uno dopo l’altro tutti i giorni dei dieci anni in cui visse là.
Non l’ho mai sentita lamentarsi, fino al giorno in cui capì che “la donna della terra” in questione era Laura… della quale non si liberò mai. Chiuse le finestre e cominciò ad inondare la casa col profumo inconfondibile delle pietanze che si cuocevano sui fornelli. Osservava mio padre in silenzio, mentre sulle sue mani comparivano via via rughe e calli per il tanto impastare, tagliare frutta, ungere teglie, sminuzzare cioccolato, montare chiare.
A volte rimanevo incantata dalla velocità con cui le sue mani si muovevano e lei guardandomi mi sorrideva, bisbigliando:
«Come dice il vecchio detto: “per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore”».
Mia madre trascorse la sua vita tra film, pentole, padelle, fornelli… e vecchi detti. Che non avevo mai sentito dire da nessuna parte se non da lei.
Mio padre usciva presto per andare in ufficio e tornava sempre a casa per pranzo. Fino al giorno in cui morì, mio padre non rinunciò mai ad un pranzo o ad una cena a casa. E non ricordo nemmeno, finché rimase al mondo, neanche solo una volta in cui mia madre non gli abbia preparato un pasto che non fosse raffinato: zuppa, pesce, carne, dolce, frutta e caffè. E alla fine, dopo tutto questo ben di Dio, era tradizione servire in tavola la torta al cioccolato che abbiamo sempre chiamato “la torta del papà” e che mia madre faceva un giorno sì e un giorno no. Per mio padre la torta era come una droga. Dopo pranzo e dopo cena, ecco che arrivavano le fette di torta ricoperte di cioccolato, col loro ripieno di panna, mandorle e chantilly.
Mio padre mangiava in silenzio. E in silenzio mia madre lo serviva, osservandolo e sorridendogli sempre. Ma con un sorriso strano, che ci si insinuava nel cuore consumandolo poco a poco. Lentamente ma senza fermarsi un attimo.

«Non te l’ha mai insegnato tua madre?»
La guardai senza capire.
«Di… delle chiare che non si montano, della crema che fa molti grumi, della maionese che impazzisce, del cioccolato che non si scioglie a bagnomaria. Quando abbiamo… sì, insomma, mi capisci, quando abbiamo i nostri giorni, queste cose succedono sempre. Sempre. Nessuno sa dire il perché. Mia nonna diceva che era la croce delle donne, perché erano impure. Era un pozzo di saggezza quella vecchietta! Ma io non credo a queste sciocchezze. Però succede davvero. Sarà il ciclo, va’ a sapere…»
No, mia madre non mi aveva mai detto nulla del genere, mia madre era vissuta per ingozzare mio padre di cibo, quel poco che sapevo della vita l’avevo imparato dai compagni di scuola e dalle domestiche.
Quella mattina in cui mi svegliai e mi vidi insanguinata, ricordo di essere corsa sotto shock da Lurdes, di averle gettato le braccia al collo urlando: «Ho la tubercolosi! Ho la tubercolosi! Sto per morire!». Lurdes accorse dal lavatoio asciugandosi le mani nel grembiule e tenendosi l’indice premuto sulle labbra: «Shh! Basta! Altrimenti sua madre la sentirà!».
Mi portò nel bagno minuscolo dei domestici, si prese cura di me: mi calmò e mi spiegò che non sarei morta ma che quello che mi era successo significava che da quel momento avrei potuto avere dei figli.
«Figli? Avrò dei figli?»
Presi paura al pensiero di stringere da lì a pochi giorni un bebè tra le braccia. Mi chiesi com’è che nascevano i bambini, come si accudiva un bebè, cos’è che avrei dovuto dargli da mangiare, se lo si poteva saziare solo con la torta al cioccolato di mio padre, come l’avrei dovuto vestire e come avrei fatto a portarlo con me a scuola visto che ci lasciavano portare i giocattoli solo al mercoledì.
«Certo, ne avrà molti, ma mica adesso!», disse ridendo Lurdes.
Quel pomeriggio Lurdes raccontò tutto a mia madre, la quale però non entrò mai in argomento con me.
Ma nella settimana in cui mi venivano le mestruazioni, mia madre tagliava sempre una fetta di torta, fatta in genere unicamente per mio padre, di modo che io la mangiassi a scuola a merenda, dicendo:
«Come dice il vecchio detto: “il cioccolato venne in mente per alleviare un corpo dolente”».
Ancora oggi non so di che cosa sia morto mio padre. Un attimo prima masticava tranquillo, di gusto, deliziato dagli ultimi bocconi della fetta di torta, con il cioccolato che gli si scioglieva in mano, pronto a piantare la forchetta nell’ultimo pezzo che rimaneva per poi leccarsi le dita. Un attimo dopo era accasciato sul tavolo, con il capo riverso nel piatto, gli occhi vitrei riflessi nella forchetta, privo di sensi.
Mia madre disse:
«Chiamate un’ambulanza».
Portò via gli avanzi del pranzo mormorando:
«Come dice il vecchio detto: “vita finita, piazza pulita”».
Il commento del medico che attestò il decesso era tutto un superlativo: colesterolo elevatissimo, pressione altissima, arterie occlusissime.
Dopo il funerale, a cui mia madre non andò per tener fede al suo voto di clausura, non si mangiò mai più in sala da pranzo. Svuotò frigorifero e dispensa con quell’aria a metà strada tra compiacimento e afflizione che viene solo quando si ha la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere o perché raggelati da una vendetta definitiva… da quel momento in poi abbiamo cominciato a mangiare in cucina.
Una mattina entrai in camera sua ma non la trovai. Le domestiche non l’avevano vista né sentita camminare per la casa. La polizia, senza grande impegno, fece delle indagini sulla sua scomparsa. Ma dieci anni erano tanto tempo e ormai nessuno si ricordava di aver mai visto la sua faccia. Parecchio tempo dopo, una cartolina con sopra il Vulcano Capelinhos e con una firma illeggibile di qualcuno che diceva di essere mio cugino alla lontana mi avvisava della sua morte.
Presi O Livro de Pantagruel e i film di Audrey Hepburn e venni a Lisbona, mentre Laura faceva il suo ingresso a Villa Vittoria crogiolandosi nel suo dolore di eterna vedova.
*
«Passamelo, altrimenti non usciamo più da qui dentro».
Senza dire nulla le passo la ciotola.
«Forse Sofia sì che era un’ottima cuoca».
Sento un brivido.
«Ma chi è questa Sofia?»
Luís non mi ha mai parlato di nessuna Sofia. Nemmeno quel pomeriggio al Colombo. E io non ci avevo più pensato. Forse non c’era nessuna Sofia e lei l’aveva detto solo per provocarmi. La guardo muovere velocemente la frusta alcune volte, la guardo girare sotto-sopra la ciotola con la destrezza di un giocoliere e io, da sciocca:
«Stia attenta, badi che non cada che poi si sporca il vestito!»
Come se mi importasse veramente qualcosa se si sporcava il vestito, sicuramente firmato, ovvio, e lei:
«Non cade niente! Sono montate a neve alla perfezione, non cade neanche una goccia!»
Mi ripassa la ciotola ed esce dalla cucina con l’aspetto trionfante di chi ha appena annientato il nemico sul suo stesso terreno di combattimento.
Ungo la teglia, la cospargo di farina, vi verso infine tutto il composto. E il forno lentamente farà il resto. Mi sciacquo le mani, mi tolgo il grembiule, mi sistemo i capelli e li raggiungo in soggiorno.
Sono entrambi presi da una conversazione molto accesa sulla salute che non interrompono al mio arrivo.
«Anche tu, mamma, devi aver cura di te, devi stare attenta al tuo stile di vita e a quel che mangi. Guarda che non sei più una ragazzina e poi questi problemi di pressione possono diventare guai».
«Ma che m’importa! È il farmacista che mi racconta queste cose per spaventarmi. Io, però, non passo la mia vita a pensare alle malattie! Ho troppe cose da fare e non posso perder tempo dietro a queste preoccupazioni. E poi non c’è nulla di meglio che mettere qualcosa di dolce sotto ai denti».
Improvvisamente mi rendo conto di aver cominciato a parlare:
«Tutto ciò che rende la vita piacevole appaga il Signore e noi!»
E lei ridendo: «Finalmente qualcuno che mi capisce!». E voltandosi verso Luís esclama: «Adesso stiamo a vedere se la cambi!»
Si appoggia allo schienale e, scongiurate le disgrazie che aveva previsto Dora, restiamo lì insieme, lei a rivelarmi i segreti del figlio e io a promettere di farle torte, mousse, semifreddi e bavaresi affinché né il suo palato né la sua vita siano mai più amari, mentre fuori dalle finestre cala la sera, il mondo appare sempre più lontano e tutto profuma di Cacharel e cioccolato.

FINE

Torta del papà

Ingredienti:
125 g di burro
180 g di zucchero
3 uova
½ tazza di latte tiepido
80 g di cacao
225 g di farina
2 tazze di panna fredda
60 g di zucchero a velo
100 g di mandorle sgusciate
scaglie di cioccolato
crema chantilly per guarnire


mercoledì 25 dicembre 2013

"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" (seconda parte)


     "Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" 

di 
Alice Vieira

(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)

Racconto tratto da 

"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"

Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro


Edizioni dell'Urogallo, 2013



“[…] Il più grande dispiacere di mia madre era dato dal fatto che io non assomigliavo a Audrey Hepburn. Vivevamo entrambe a Villa Vittoria, abitata dai fantasmi delle donne ormai morte che si erano susseguite nel corso delle generazioni. Ero arrivata lì quand’ero ancora una bambina e non avevo nessun ricordo della mia vita prima di quel momento, non ricordavo neppure che eravamo arrivati da un’isola lontana e di essere finiti lì con mio padre, in quella villa in cui aveva abitato la sua famiglia e in cui non era rimasto più nessuno. Mia madre mi raccontava che avevo gridato per tutto il viaggio.
«Credevo che non avresti resistito».
Ciò avvenne però molto prima che lei cominciasse a capire, dagli sguardi delle vicine e dai mormorii degli uomini al bar che cessavano appena entrava lei. Molto prima che sentisse qualcuno pronunciare vicino a lui il nome di Laura e che lei chiedesse:
«Chi è Laura?», senza che nessuno le desse risposta, mentre tutti si voltavano dall’altra parte cambiando discorso.
Molto prima di capire che da dietro ai vetri della villa di fronte una donna la spiava tutte le volte che usciva ed entrava in casa oppure quando si affacciava alla finestra a guardare il fiume con nostalgia del mare.
Molto prima che le spiegassero la maledizione di quella terra: gli uomini che da lì se ne andavano, lì facevano ritorno sempre. E le donne di quella terra restavano per sempre dentro alle loro vite anche se loro ritornavano con altre. L’anziano signore che tutti i mesi veniva a sistemarci il giardino diceva sempre:
«Le donne di questa terra sono come la terra stessa; e la terra nessuno la vende, nessuno la cambia».
Le donne di quella terra si imponevano con tutta lo loro forza, caparbie, vincenti, eterne.
Le altre rimanevano le altre.
Mia madre, tuttavia, cercò di nuovo di strappare di bocca a mio padre la risposta a quella domanda:
«Chi è Laura?»
Ma lo sguardo algido di mio padre, quasi a voler dire: «Non fare domande».
Le diede tutte le risposte che cercava.
Chiuse le finestre, tirò le tende e, fino alla sua morte, non mise mai più piede in strada. Poteva anche non essere una donna di quella terra ma le si leggeva la vergogna in volto.
*
Lei continuava a fissare le mie mani, la ciotola, le chiare e quel liquido giallognolo. E ripeteva:
«È il sangue, te l’ho già detto. Non c’è nulla da fare».
Smisi di sbattere le chiare.
E lei disse:
«È il sangue».
Ripresi a sbattere le chiare, cercando di ignorarla perché così mi aveva detto di fare Dora.
*
Dora era spuntata quella mattina con una faccia da funerale. La sua testa aveva fatto capolino dalla porta del loculo in cui io mi occupavo della parte pubblicitaria della rivista e mi aveva chiesto:
«Conosci una ricetta col cioccolato?»
Mi colse alla sprovvista. In redazione, Dora aveva il solo compito di scrivere le pagine dell’oroscopo e io non capivo che cosa c’entrassero gli astri con la più grande minaccia per il colesterolo e per la taglia 42.
«È una questione seria, non ridere».
«Non sto ridendo».
«Ma soprattutto non ti mettere a ridere dopo che avrai sentito quello che ti sto per dire».
Dora aveva un modo tutto suo di scrivere la pagine dell’oroscopo per la rivista; nel corso della settimana girava per i vari uffici a chiedere ad ognuna di noi cosa volessimo che ci succedesse nella settimana a venire. Raccoglieva i desideri di tutte, ci aggiungeva quello che lei chiamava «una dose di poesia con un pizzico di realismo», distribuiva poi tutto quanto per i dodici segni zodiacali, impaginandolo appositamente nello spazio che le capitava. C’era chi quelle due pagine le ritagliava e le leggeva con devozione. C’era chi inviava e-mail, lettere e addirittura regali, giurando che tutto si era avverato tale e quale a come aveva previsto lei.
«Ci azzecco sempre…», esclamava Dora.
C’era chi diceva che la rivista si vendeva grazie a Dora, che si firmava Eudora «per dare al tutto un sapore più greco, un po’ come se fosse in confidenza con la pizia di Delfi». Non ricordavo che la pizia di Delfi si chiamasse Eudora, a dire il vero non ricordo che la pizia di Delfi avesse un nome. Ma quella mattina Dora entrò nel mio ufficio con la fronte corrucciata.
«O mi prepari una ricetta di una torta al cioccolato da scrivere nell’oroscopo del tuo segno o non sarei così sicura che la prossima settimana non abbia in serbo per te brutte sorprese».
«Come?»
«Ti avverto, incontrerai il male sul tuo cammino e potrai avere la meglio solo prendendolo per la gola».
Rabbrividii.
Tornai a sentire quel detto della mia infanzia: “per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore”, e cercai di fare buon viso a cattiva sorte.
Risi e dissi:
«Anche il male ha la gola?»
«Ti avevo chiesto di non ridere!»
«Non sto ridendo, ti sto facendo una semplicissima domanda. Ce l’ha?»
«Solo con una torta di cioccolato riuscirai a scacciare gli spiriti maligni.»
«Spiriti maligni che, tra l’altro, sono anche loro ghiotti di torte al cioccolato… mica male…»
«Torta, budino, mousse, cioccolatini… l’importante è che ci sia il cioccolato».
Dora entrò del tutto chiudendo la porta dietro di sé, appoggiò la stampante per terra per potersi sedere sulla sedia e, seria in volto, esclamò:
«L’ho visto nelle carte».
Non mi era mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello che Dora facesse i tarocchi. Mi aveva sempre fatto ridere il suo metodo, come dire? …poco ortodosso di studiare gli astri per scrivere l’oroscopo (un segreto che avevo promesso di portarmi nella tomba), e non avrei mai creduto che, se non per la rivista, Dora potesse aver qualcosa a che fare con l’astrologia e cose simili.
«Fai i tarocchi?»
«Nei casi disperati leggo anche i fondi del caffè».
In effetti, come dice il vecchio detto: “ogni persona è un universo e la gente non ne vede nemmeno una piccola parte”. Fu proprio in quel momento che il mio cellulare inondò l’ufficio con una stridente imitazione di uno dei valzer di Chopin per avvisarmi che avevo ricevuto un sms.
«Sabato alle 5. L.»
Stava per uscirmi di bocca una parolaccia ma mi trattenni. Non ho nulla contro le parolacce, ma ci sono cose che non si dimenticano col tempo, come ad esempio la mia lingua ricoperta di sale, la stanza senza finestre di Villa Vittoria dove rimanevo rinchiusa per tutto il giorno, o altre premure simili di cui l’infanzia mi aveva fatto dono. Rimasi a fissare il cellulare. Avevo quattro giorni davanti a me e tutto il peso del mio passato sulle spalle.
Come dice il vecchio detto: “quando il passato avanza il presente arretra”.
«È successo qualcosa?», chiese Dora.
«No, ma se non ti dispiace ora lasciami lavorare che così forse oggi ce la faccio ad uscire prima, che ho alcune faccende da sbrigare».
«Ma non dimenticarti di ciò che ti ho detto. Cioccolato. Prepara torte, biscotti, qualsiasi cosa. E portami la ricetta che la metto nel tuo segno. Qualsiasi cosa. L’importante è che tu abbia in casa qualcosa al cioccolato da offrire a chi verrà a trovarti questo fine settimana».
«Viene a trovarmi qualcuno?»
«Ah, non te l’ho detto? Con la suoneria di quel cavolo di cellulare mi è passato di mente… sì, sì. È questa visita che può portarti gli spiriti maligni in casa. Sta’ attenta».
«Come dice il vecchio detto: “chi aspetta visite incontra la morte”».
«Non l’avevo mai sentito questo detto…»
«Mia madre parlava sempre per detti. O per lo meno, era lei a sostenere che fossero detti. Ogni tanto me ne esce qualcuno dalla bocca».
«Comunque sia, fa’ attenzione: il male può entrare nella tua vita quando meno te l’aspetti e nel modo più subdolo possibile. In punta di piedi… alla luce del sole… col colore del sangue…»
«Sei per caso diventata matta? …Ci manca solo che mi dici a che ora…»
«Domani alle cinque».
«Vattene dal mio ufficio!».
*
Ci eravamo imbattuti in lei nel bel mezzo del Colombo. Ho sempre odiato il centro commerciale Colombo, con quelle corsie tutte a semicerchio, tutte uguali, mi ci perdevo sempre, ma Luís aveva insistito e all’improvviso ecco che lo sento dire:
«Cavolo!».
E lei era lì davanti a noi. Non c’era modo di evitarla. Siamo rimasti tutti e tre in silenzio per alcuni secondi.
Poi Luís disse:
«Ti presento Inês».
E lei disse:
«Inês?!… Ma Sofia? Dov’è finita Sofia?»
Scosse la testa con le mèches giallo paglierino e guardandomi bene da di fronte esclamò:
«Gli uomini… un giorno si innamorano di una giurando che sarà per sempre e che sarà con lei che metteranno su famiglia, che fanno sul serio, bambini, rate della macchina, vacanze al mare, sabati pomeriggio al centro commerciale, che vogliono invecchiare solo con lei… e poi il giorno dopo ne hanno già un’altra. Se dovessi star qui a ricordarmi di tutte quelle che mi ha presentato, nella mia testa non ci sarebbe spazio per nient’altro».
Ridacchiò e proseguì:
«Proprio come puoi vedere ho una vita molto intensa, non sono una di quelle che se ne rimane con le mani in mano, penso che una donna debba aver sempre qualcosa da fare. Ricamo, faccio la maglia, i tappeti di Arraiolos, le parole crociate e ho appena iniziato a scoprire il mondo dei social network!»

Luís e lei, poi, scoppiarono a ridere, mentre io rimasi lì a guardarli, estranea a quelle che, dopo tutto, erano cose loro. […]”

lunedì 23 dicembre 2013

"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore", un racconto che ha il sapore del Natale

Se siete tra quelli che, tra una corsa e l’altra a caccia degli ultimi “pensierini”, su strade intasate e negozi affollati, avete bisogno di qualche momento in compagnia della sola voce di un buon libro, gustatevi la lettura del racconto – dal sapore squisitamente natalizio, ovvio – “Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore” della scrittrice Alice Vieira.
Il brano proposto, che pubblicheremo in tre momenti, è tratto da “Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita”, raccolta di racconti edita in Italia dalla casa editrice Urogallo: sei autrici portoghesi si sono prestate alla stesura di un breve racconto dove regna un unico, golosissimo protagonista, il cioccolato. Nota di colore è la ricetta che accompagna la fine di ciascun racconto.
A tutti voi buona lettura e, ovviamente, Buone Feste!


    

     "Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore"

di 
Alice Vieira

(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)

Racconto tratto da 

"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"

Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro

Edizioni dell'Urogallo, 2013





“Avevo già sbattuto il burro con lo zucchero, avevo già rotto le uova, separando la chiara da una parte e il tuorlo dall’altra, avevo già aggiunto i tuorli al composto, uno ad uno, lentamente, molto lentamente, ma senza mai fermarmi, proprio come faceva sempre mia madre. Stava andando tutto per il verso giusto e io pensavo perfino che se mia madre mi avesse potuto vedere sarebbe stata finalmente fiera di me, anche se non assomigliavo a Audrey Hepburn e anche se non avevo rotto le uova come lei insegnava, non avevo ancora così tanto coraggio, che cosa avrei fatto se mi si fossero schiacciate tra le dita?
Era da quando mi ero alzata che la voce di mia madre mi seguiva in ogni angolo della casa, quella voce autoritaria, terribile poiché sempre celata dietro una pacatezza e un affaticamento solo apparenti. Era parecchio che non mi veniva in mente, lo ammetto. Non sempre la vita ci conduce in quel rifugio sicuro dove il ricordo di chi ci ha lasciato ci fodera l’anima difendendola da ogni pericolo. Ma durante tutta quella settimana, senza che ci fosse un vero motivo, la sua voce mi seguiva da mattina a sera sussurrando detti di una volta e confondendosi con l’acciottolio delle stoviglie che prendevo dalla credenza, con il rumore dello sportello del frigorifero che aprivo e chiudevo in continuazione, con i miei passi per la cucina, con la suoneria degli sms di Luís, con la voce di Dora che mi metteva in guardia dal peggio.
Avevo anche già mescolato il cacao con il latte tiepido, avevo già versato il tutto dentro alla ciotola bianca a fiori azzurri e mescolavo, mescolavo e la cucina smetteva finalmente di odorare solo di aglio e cipolla, cominciando a profumare appena appena di torte, di Vigilia di Natale, di Villa Vittoria. Buttai, poi, un occhio alla ricetta con la calligrafia molto decisa di mia madre, dall’inchiostro però ormai sbiadito:
«Aggiungere poco alla volta la farina setacciata e le chiare montate a neve alternando».
E fu in quel momento che mi accorsi di non avere ancora montato le chiare a neve.
Odio montare le chiare. Faccio di tutto pur di non dover montare le chiare. Ma ormai era troppo tardi. Lei non avrebbe tardato ad arrivare e, per di più, quella era la ricetta che avevo dato a Dora da pubblicare sulla rivista. “La torta del papà” era l’unico rimedio possibile contro le disgrazie che, secondo lei, sarebbero venute a bussare alla mia porta.
Afferrai la frusta e mi misi a sbattere quella schifezza forsennatamente, come se stesse per arrivare mio padre e la torta non fosse ancora in tavola, come se Laura mi stesse spiando dall’altro lato della strada, come se fosse l’ultima cosa che avrei fatto in vita mia. Non sentivo quasi più il braccio destro, perciò provai a prendere la frusta con la mano sinistra, ma non riesco a fare nulla con la sinistra quindi tornai a riprenderla con la destra, mi faceva male tutto e quel miscuglio continuava ad essere liquido, giallognolo, senza nessuna traccia di chiare montate, o mio Dio, ci saranno sicuramente delle preghiere da dire in questi casi per riuscire a fare queste cose, come quelle preghiere che si recitano nei paesini per fare lievitare il pane.
Diedi ancora una volta un’occhiata preoccupata alla ricetta ma non potevo fare nulla senza le chiare montate (“con forza”, aveva annotato mia madre a margine della pagina), anche perché era l’unica cosa che mancava da fare, l’ultimo passo prima di infornare il tutto. Dopodiché tutto sarebbe diventato più semplice. Era da più di un quarto d’ora che sbattevo le tre chiare che richiedeva la ricetta e, all’improvviso, strillai:
«Mi sono dimenticata il pizzico di sale!»
Mi sentii risollevata. Ovvio che le chiare non si montavano: mi ero dimenticata di metterci quel pizzico di sale che era indispensabile.
«Come dice il vecchio detto: la chiara senza il sale, schiuma non fa e nulla vale».
Non riuscivo a togliermi dalla testa la voce di mia madre.
Ma anche con il pizzico di sale le chiare non si montavano, restavano liquide, giallognole, stomachevoli. Avevo schizzi di chiare sul grembiule, sulle dita e nei capelli.
«È meglio se ci rinunci, mia cara. Così non arriverai da nessuna parte».
Non era di certo la voce di mia madre. Sollevai il capo, che per poco non avevo messo dentro al liquido, e me la ritrovai di fronte.
«Da te alle cinque e mezza».
Mi aveva assicurato Luís nell’ultimo sms.
Avevo calcolato tutto perché la torta fosse pronta al suo arrivo o, quanto meno, che stesse per uscire dal forno, cotta a puntino, bella calda, così che lei potesse ben vedere che si trattava di un’opera d’arte creata dalle mie mani e non dalle mani della vicina o del pasticcere qui all’angolo.
Non doveva arrivare in quel momento. Non doveva proprio. Ma era lì. Mi osservava, con le sue mèches giallo paglierino che le scivolavano sul viso, diffondendo l’ultimo profumo di Cacharel che si mescolava con l’odore di aglio e cipolla tipico della mia cucina e, adesso, anche con questo leggero profumo di cioccolato e zucchero.
Guardava verso di me e ripeteva:
«Così non arriverai da nessuna parte…»
Io continuavo a sbattere le chiare, con più vigore ad ogni movimento e più in fretta; le chiare erano sempre uguali e lei se ne stava ferma impalata sulla soglia della cucina guardando fisso le mie mani e la frusta.
Improvvisamente la sentii dire:
«È il sangue».
Mi fermai e mi misi a guardarla.
Senza nemmeno guardarmi ripeteva:
«È il sangue… il sangue…»
Ora alla voce di mia madre si univa a quella di Dora che, a proposito di quel giorno, mi aveva detto:
«Attenzione, il male può assumere il colore del sangue…»
Che assurdità! Era sicuramente colpa del caldo che mi stava dando alla testa. Il caldo sì che cominciava a darmi alla testa, solo le chiare non cominciavano a montarsi. Ingiustizie della vita.
E poi ecco la voce di Luís, ancora intento a chiudere la porta:
«Alla fine siamo arrivati prima! Sono uscito dall’ufficio e sono andato subito a prenderla».
Non so neppure dove sono riuscita a trovare la voce per rispondergli:
«Andate in soggiorno. Là starete più comodi».
Era come se non esistesse. Come se non fosse lì davanti a me. Dove in realtà non sarebbe dovuta stare. Sarebbe dovuta essere in casa sua, seduta in salotto, a trovare amici su Facebook.
«Natália ti ha chiesto l’amicizia, suggerisci amici a Natália».
Oppure a ricamare i tappeti tipici di Arraiolos.
«Due punti in avanti e un punto indietro».
O a fare le parole crociate.
«Fiume svizzero con tre lettere, simbolo chimico del praseodimio, pesce della famiglia degli scombridi, antica città della Caldea».
Ma dove caspita sarà poi la Caldea, chissà se esiste ancora, i paesi adesso spuntano e spariscono alla velocità della luce, ma comunque era questo che avrebbe dovuto fare ora, nella quiete di casa sua, mentre aspettava che arrivassero le cinque.
«Fa molto caldo in questa cucina…», dissi, forse così la convincevo a lasciarmi in pace.
Magari la mia cucina fosse grande come quella di Villa Vittoria… la mia cucina, però, era un buco, grande praticamente quanto il mio ufficio in redazione, ci stavamo a malapena tutti, cioè i fornelli, il frigorifero, il microonde e io.
La cucina dove Audrey Hepburn rompeva le uova con una sola mano sembrava un laboratorio.
Mia madre cercò anche di insegnarmi:
«Guarda come fa lei, è facile: metti l’uovo ben al centro della mano, sposta la mano sopra alla ciotola e poi basta solamente un tocco leggero col pollice ed è fatta».
Mia madre avrà visto quel film più di cento volte. Audrey Hepburn, che nel film si chiamava Sabrina, tornava da una scuola di cucina di Parigi e sposava Humphrey Bogart, che faceva la parte di Linus. Penso che fu dopo aver visto tutto quanto il film più volte che la sentii dire per la prima volta:
«Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore».
«In sala fa molto più fresco…», borbottai.
Lei continuava a guardarmi e io continuavo a pensare solo ad Audrey Hepburn e a mia madre, chiusa in casa per dieci anni, tra film in bianco e nero, detti popolari e l’immancabile ricettario O livro de Pantagruel, dalle pagine appiccicose per il tanto uso che ne faceva, per la tanta farina che vi era finita sopra, per le tante chiare d’uovo che vi aveva versato, per le tante macchie d’olio e di burro e soprattutto di cioccolato, l’arma della sua vendetta finale.
Lei sorrideva, con quel sorriso forzato di chi di sorridere non aveva nessuna voglia, fissando le mie mani strette disperatamente intorno alla frusta, mentre io sentivo soltanto la voce di mia madre che echeggiava in lontananza da Villa Vittoria:
«Impara a rompere le uova come si deve, impara guardando Audrey Hepburn, almeno questo» […]”.




venerdì 20 dicembre 2013

Chico Mendes: veniva assassinato il 22 dicembre di 25 anni fa

Il reportage di Gad lerner diventa e-book dopo un quarto di secolo


Il 22 dicembre 1988 veniva assassinato davanti alla sua casa di Xapuri, dove era nato 44 anni prima, Chico Mendes. Pagava così con la vita la lotta alla riforma agraria voluta dai latifondisti che aveva contrassegnato la sua breve, ma intensa esistenza, tutta dedita alla difesa dei lavoratori e dei popoli della foresta amazzonica brasiliana. Descriverlo come sindacalista e politico sarebbe sminuirne la figura: Mendes resta un mito internazionale dell'ambientalismo, un'icona del commercio equo-solidale.

Quanti, al pari di Francisco Alves Mendes Filho (questo il suo vero nome) possono vantare tante canzoni composte in sua memoria? Basti pensare a: "Ricordati di Chico" dei Nomadi, a "Cuando los angeles lloran" dei Manà, a "How many people" di Paul McCartney o a "Tëra dël 2000" dei Mau Mau, per citarne alcune. Non si contano poi le strutture (dai parchi naturali alle scuole) a lui intitolate, ma cosa ancor più rara è che gli sia stata dedicata una nuova specie di uccelli, lo "Zimmerius chicomendesi", scoperta in Amazzonia nel 2013 da un gruppo di studiosi della Louisiana State University.

Per commemorare degnamente la figura di Chico Mendes si potrebbe ripercorrere la sua imponente biografia, mai abbastanza celebrata, o focalizzarsi su alcuni episodi. "Il diario portoghese" sceglie un'altra via: l'opportunità offerta del reportage, riedito a distanza di 25 anni, che un inviato italiano pubblicò poco dopo la morte di Mendes reduce dal viaggio in quella sperduta regione. Si tratta di Gad Lerner, allora inviato de L'Espresso, il cui lungo racconto viene ora ripubblicato in edizione e-book da Feltrinelli (prezzo on line E 1,99). Nell'introduzione dello stesso autore, "Il diario portoghese" ha colto infatti, oltre alla  perdurante emozione, anche una serie di considerazioni sui poderosi cambiamenti intervenuti nel frattempo ("il mondo si è capovolto", dice) in un'area del pianeta tanto cara al nostro Blog, da volerle condividere coi suoi lettori.

mercoledì 11 dicembre 2013

Manoel de Oliveira compie 105 anni: auguriamo "Feliz Aniversário" ad un vero maestro del cinema

Il regista portoghese, ancora attivo, è oggi il decano mondiale della cinematografia


Nato ad Oporto l'11 dicembre del 1908, compie oggi la bellezza di 105 anni quel colosso della cinematografia che risponde al nome di Manoel Cândido Pinto de Oliveira. Rimasto ormai il decano mondiale dei veri maestri del cinema, non sembra ancora tentato dal pensionamento: risale appena al 2012, infatti, l'ultimo suo film "O Gebo e a sombra" col quale si è presentato alla 69/ma Mostra del Cinema di Venezia dove negli anni precedenti aveva ricevuto ben due volte il Leone d'oro alla carriera.

Claudia Cardinale, tra gli interpreti del film presenti al Lido nell'occasione, così parlava del maestro: "Manoel è un regista straordinario, con un'energia incredibile. E' davvero meraviglioso lavorare con lui. Per darvi un'idea della sua vitalità vi posso dire che prima di arrivare sul set andava a fare nuoto. Questo è un film -aggiungeva l'attrice- girato in soli 25 giorni. Una cosa che, come sappiamo, capita raramente".

Ispirato all'omonima pièce teatrale di Raul Brandão, anche l'ultimo lavoro di Oliveira conferma il forte legame che l'iper-produttivo regista ha sempre avuto col testo scritto, tanto da dichiarare in una delle sue numerose interviste: "L'immagine, al cinema, ha la sua importante funzione, ma la parola è il ritratto del pensiero". Un punto chiave che contraddistingue il lungo percorso e l'opera di Manoel de Oliveira è infatti il rapporto con la letteratura da cui si lascia ispirare. Tra i suoi conterranei portoghesi predilige Camilo Castelo Branco, José Régio e in modo particolare, Agustina Bessa-Luís. Ma attinge anche dai francesi, come Paul Claudel e Madame Lafayette.

Il diario portoghese, conscio di non essere un blog di cinema, si limita ad omaggiare questo grande protagonista del '900 evitando di tediare i lettori con la sua bio-filmografia che da sola riempirebbe pagine. Si concede, tuttavia, almeno un paio di curiosità per meglio avvicinare il Maestro. A proposito del film "Amor de perdição", tratto dal romanzo omonimo di Castelo Branco che in Portogallo viene studiato a scuola come noi studiamo "I promessi sposi", ecco come de Oliveira sintetizza il legame tra il testo e la trasposizione cinematografica: "Tutto quello che venne da me per il film, venne dal libro per me".

Quanto al sodalizio speciale che lo lega alla scrittrice Agustina Bessa-Luis, autrice dei romanzi da cui prendono forma diversi film a partire da "Francisca" del 1981, vale la pena ricordare che ad un certo punto riuscì a convincerla a scrivere per lui un adattamento cinematografico di Madame Bovary: ne uscì "La valle del peccato" (2003) considerato dalla critica il miglior adattamento del romanzo di Flaubert di tutti i tempi. Il convento, La valle fantasma, Il principio dell’incertezza, Lo specchio magico sono altri film che hanno tratto ispirazione da romanzi, già editi, firmati dalla stessa scrittrice.

sabato 7 dicembre 2013

Addio al poeta mozambicano Virgílio de Lemos (1929-2013)

Il poeta mozambicano Virgílio de Lemos è morto la notte scorsa. Aveva 84 anni. Eduardo Lourenço lo ha definito "um dos incontornáveis pensadores portugueses do século XX". Insieme a José Craveirinha e Rui Knopfli, è stato uno dei nomi di spicco della poesia mozambicana. 

Virgílio de Lemos era nato il 29 novembre 1929 sull'isola di Ibo, in Mozambico. Aveva iniziato a scrivere le prime poesie fra il 1944 e il 1948 e, negli stessi anni, aveva collaborato al Jornal da Mocidade Portuguesa, insieme al fratello Eugénio de Lemos, artista plastico, e al giornalista Guilherme de Melo. Considerato un grande promotore del movimento letterario mozambicano, tra la fine del 1940 e il 1950, Virgílio de Lemos è stato fra i più importanti collaboratori della rivista di poesia Msaho, contemporanea della rivista Négritude di Aimé Cesaire. L'obiettivo principale di Msaho era quello di restituire la giusta dignità alle culture locali mozambicane, elaborando una poetica che rompesse con i modelli letterari imposti dalla colonizzazione. 

Irriverente e vertiginosa, la poesia di Virgílio de Lemos denunciava l'oppressione delle etnie nere mozambicane, combattendo contro la repressione coloniane e sognando la fratellanza fra bianchi e schiavi: 

(...) Ah! tantos desconhecidos mortos      
os que nasceram mais tarde
não hão-de gritar humilhados     
bayete-bayete-bayete
à kapulana vermelha e verde
se subsistirem no tempo
kapulanas de várias cores. (...)
(Duarte Galvão, Lourenço Marques,1954)    

Questa poesia è entrata nella storia della poesia mozambicana, in particolar modo perché costò al poeta un'incriminazione per vilipendio alla bandiera portoghese. Virgilio de Lemos venne successivamente assolto: l'avvocato, Carlos Adrião, riuscì a convincere le autorità del fatto che il rappresentare la bandiera portoghese come una capulana verde e rossa non era un oltraggio, ma, al contrario, una forma di considerazione, giacché nella tradizione mozambicana soltanto le mamanas, le donne di grande rispetto, indossavano la capulana. 

Fra il 1954 e il 1961, partecipò alla resistenza mozambicana, collaborando con O Brado Africano, Tribuna, Notícias e A Voz de Moçambique. Risalgono a questo periodo le poesie del ciclo del Tempo Agreste, firmati da Duarte Galvão, colui che, fra gli eteronimi, rivela maggiormente la preoccupazione per le questioni sociali, i pregiudizi etnici, la miseria e l'ingiustizia. Nel 1960, queste poesie furono pubblicate nell'antologia Poemas do Tempo Presente, successivamente proibita dalla PIDE, organo di censura del regime dittatoriale portoghese. Fra il 1961 e il 1962, Virgílio de Lemos scontò quattordici mesi di prigione con l'accusa di sovversione finalizzata all'indipendenza del Mozambico. Giudicato dal Tribunale Militare, nel 1963, una volta riconquistata la libertà, decise di lasciare il suo paese e di trasferirsi in Francia. 

Fra i suoi eteronimi, oltre a Duarte Galvão, famoso per il suo impegno politico, ricordiamo Lee-Li Yang, poeta dell'erotismo, e Bruno dos Reis, autore di una poesia generazionale. 

giovedì 5 dicembre 2013

Oscar Niemeyer: il 6 dicembre di un anno fa moriva a Rio de Janeiro dove era nato 104 anni prima

Ricordiamo l’artista geniale senza dimenticare il suo spirito rivoluzionario


Il 6 dicembre di un anno fa, il Brasile piangeva la scomparsa di uno dei maggiori maestri del '900, genio riconosciuto dal suo Paese come dal mondo intero: alla venerabile età di 104 anni, moriva nell’ospedale Samaritano di Rio de Janeiro Oscar Niemeyer e la sua città natale si fermava a lutto per tre giorni. Ci sarebbero molti modi per celebrare questa figura di incommensurabile statura, per tentar di spiegare cosa abbia rappresentato non solo per l'architettura e la bellezza, ma anche per la società, avendo sempre coniugato impegno civile e morale alla sua attività. Il diario portoghese, che su Oscar Niemeyer avrà modo di ritornare ancora, in questo primo anniversario dell'addio sceglie di porre l'accento più sugli aspetti dell'uomo che del geniale artista, benché sia difficile scinderli.

Il nostro blog lo fa soprattutto attraverso alcune sue dichiarazioni, che da sole bastano a ricordare che razza d'uomo sia stato e attraverso cui balzano subito evidenti due sue caratteristiche universalmente riconosciute: quella di pensatore anticonformista e di rivoluzionario convinto fino alla fine dei suoi giorni. Basti dire che, già ultracentenario, si lasciava sfuggire affermazioni come "Il capitalismo è una merda", aggiungendo: "L'idea di rivoluzione è tuttora valida, non si deve abbandonare mai". Ma andiamo per gradi: è il 1935 quando, appena laureato ingegnere e architetto, fa subito capire che cosa ha in mente. Decide infatti di entrare gratis nello studio di Lúcio Costa, l'urbanista destinato a diventare suo maestro nonché futuro coautore del progetto Brasilia, di cui disegnò il piano.

Ecco come Niemeyer racconta quella scelta: "Non volevo, al contrario della maggior parte dei colleghi, adattarmi a questa architettura commerciale che vediamo dappertutto -spiega in una delle numerose interviste rilasciate, ricordando quei tempi. Nonostante non avessi un soldo, ho preferito lavorare gratuitamente nello studio di Costa dove trovavo le risposte ai miei dubbi di giovane studente".


Che ne sia valsa la pena lo testimoniano tuttora i frutti della sua opera, ovvero quel progetto visionario chiamato Brasilia, la nuova città-capitale costruita nel nulla, al centro della savana brasiliana, voluta dall'allora presidente socialdemocratico Juscelino Kubitschek così fermamente ed entusiasticamente, da divenire realtà in soli 4 anni dalla sua ideazione. Quella che, inaugurata il 21 aprile 1960 ancora oggi è la capitale del Brasile, racchiude in sé alcune delle più innovative opere firmate Niemeyer. A volo d'uccello citiamo i suoi edifici simbolo: l’Alvorada (la residenza privata del presidente), il Planalto, il Congresso, i ministeri, il Supremo Tribunal e persino la Cattedrale. Proprio quest'ultima è considerata un capolavoro benché il suo ideatore fosse ateo dichiarato.

Sentiamo come ne parla lui stesso: "Ho evitato le soluzioni delle vecchie cattedrali buie, che ricordano il peccato. Al contrario, ho fatto scura la galleria di accesso alla navata e questa l'ho voluta tutta illuminata, colorata, rivolta con le sue belle vetrate allo spazio infinito". Già diventato quello che oggi definiremmo un "archistar", Niemeyer dovrà registrare successivamente una brusca svolta nei difficili anni politici della storia brasiliana, dopo il golpe militare del 1964 che metterà fine alla democrazia. E' allora che Niemeyer pagherà a duro prezzo la sua scelta politica giovanile, peraltro mai rinnegata: l'iscrizione al partito comunista, datata 1935. Le critiche e le minacce subite, oltre al clima di pericolo costante per gli oppositori del regime, lo costringeranno ad emigrare a Parigi nel 1967. 

Ascoltiamo come descrive quel periodo: "Durante la dittatura tutto è stato differente -racconta- Il mio studio è stato saccheggiato. I miei progetti poco a poco hanno cominciato ad essere rifiutati. Il posto di un architetto comunista è a Mosca, mi disse un giorno un ministro". Fortunatamente ormai famoso nel mondo grazie a Brasilia, Niemeyer non avrà difficoltà ad affermarsi anche in Francia, progettando opere significative come la sede del Partito comunista francese e la piazza dedicata al colonnello Fabien. Del suo periodo europeo, memorabile anche quanto realizzato in Italia: la celeberrima sede della casa editrice Arnoldo Mondadori Editore, a Segrate.

Ma la "saudade" per il suo Brasile non lo lascia mai e con la fine della dittatura, ecco che fa ritorno a casa. Nascono così altri capolavori, nuovamente dedicati al suo Paese, quali il Memorial da America Latina a São Paulo e il Museo di Arte Contemporanea (MAC) a Niterói, città di fronte a Rio de Janeiro.  Impossibile non spendere più parole almeno per quest'ultimo: costruito su una roccia a picco sulla baia di Guanabara, lo si scorge in lontananza anche dalla baia di Rio. In perfetta simbiosi col luogo in cui sorge, sembra sgorgare dalla roccia stessa, come un fiore.
















Considerato da molti il suo migliore lavoro, anche se qualche perplessità ha suscitato, lo ha fatto solo per questa ragione: il rischio di attirare talmente l'attenzione del visitatore, al punto da sottrarla alle opere esposte. Sul Mac, come su tutta l'architettura di Niemeyer, domina la linea curva imponendosi fin dalla vasta rampa curvilinea lungo la quale si accede al Museo. Cerchiamo ancora una volta proprio nelle sue parole la ragione di questa predilezione: ''Non è l'angolo retto che mi attrae, e nemmeno la linea retta, dura, inflessibile, creata dall'uomo. Ciò che mi attrae è la curva libera e sensuale. La curva che incontro nelle montagne e nei fiumi del mio paese, nelle nuvole del cielo, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l'universo. L'universo curvo di Einstein.''

Potremmo continuare a parlare a lungo delle eredità che ha lasciato, tra cui anche il Palazzo delle Nazioni Unite a New York, ideato assieme al grande Le Corbusier. Ma riempire l'elenco delle sue opere forse non renderebbe giustizia all'uomo chiamato Oscar. Minimizzando la cifra del suo valore, amava dire: "L'architettura è il mio hobby" oppure "l'architettura non è importante, è un pretesto", quasi avvertisse il rischio di non essere riuscito a fare, nella vita, quello che avrebbe desiderato fare sopra ogni cosa: essere utile. Sentiamolo dalle sue parole: "Mais importante do que a arquitetura -dice- é estar pronto pra protestar e ir na rua, isso que é importante, é o sujeito se sentir bem, sentir que não é um merda, que ele tá alí pra ser útil..."