"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore"
di
Alice Vieira
(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)
Racconto tratto da
"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"
Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro
Edizioni dell'Urogallo, 2013
“[…]
Il più grande dispiacere di mia madre era dato dal fatto che io non
assomigliavo a Audrey Hepburn. Vivevamo entrambe a Villa Vittoria, abitata dai
fantasmi delle donne ormai morte che si erano susseguite nel corso delle
generazioni. Ero arrivata lì quand’ero ancora una bambina e non avevo nessun
ricordo della mia vita prima di quel momento, non ricordavo neppure che eravamo
arrivati da un’isola lontana e di essere finiti lì con mio padre, in quella
villa in cui aveva abitato la sua famiglia e in cui non era rimasto più
nessuno. Mia madre mi raccontava che avevo gridato per tutto il viaggio.
«Credevo
che non avresti resistito».
Ciò
avvenne però molto prima che lei cominciasse a capire, dagli sguardi delle
vicine e dai mormorii degli uomini al bar che cessavano appena entrava lei.
Molto prima che sentisse qualcuno pronunciare vicino a lui il nome di Laura e
che lei chiedesse:
«Chi
è Laura?», senza che nessuno le desse risposta, mentre tutti si voltavano
dall’altra parte cambiando discorso.
Molto
prima di capire che da dietro ai vetri della villa di fronte una donna la
spiava tutte le volte che usciva ed entrava in casa oppure quando si affacciava
alla finestra a guardare il fiume con nostalgia del mare.
Molto
prima che le spiegassero la maledizione di quella terra: gli uomini che da lì
se ne andavano, lì facevano ritorno sempre. E le donne di quella terra
restavano per sempre dentro alle loro vite anche se loro ritornavano con altre.
L’anziano signore che tutti i mesi veniva a sistemarci il giardino diceva
sempre:
«Le
donne di questa terra sono come la terra stessa; e la terra nessuno la vende,
nessuno la cambia».
Le
donne di quella terra si imponevano con tutta lo loro forza, caparbie,
vincenti, eterne.
Le
altre rimanevano le altre.
Mia
madre, tuttavia, cercò di nuovo di strappare di bocca a mio padre la risposta a
quella domanda:
«Chi
è Laura?»
Ma
lo sguardo algido di mio padre, quasi a voler dire: «Non fare domande».
Le
diede tutte le risposte che cercava.
Chiuse
le finestre, tirò le tende e, fino alla sua morte, non mise mai più piede in
strada. Poteva anche non essere una donna di quella terra ma le si leggeva la
vergogna in volto.
*
Lei
continuava a fissare le mie mani, la ciotola, le chiare e quel liquido
giallognolo. E ripeteva:
«È
il sangue, te l’ho già detto. Non c’è nulla da fare».
Smisi
di sbattere le chiare.
E
lei disse:
«È
il sangue».
Ripresi
a sbattere le chiare, cercando di ignorarla perché così mi aveva detto di fare
Dora.
*
Dora
era spuntata quella mattina con una faccia da funerale. La sua testa aveva
fatto capolino dalla porta del loculo in cui io mi occupavo della parte
pubblicitaria della rivista e mi aveva chiesto:
«Conosci
una ricetta col cioccolato?»
Mi
colse alla sprovvista. In redazione, Dora aveva il solo compito di scrivere le
pagine dell’oroscopo e io non capivo che cosa c’entrassero gli astri con la più
grande minaccia per il colesterolo e per la taglia 42.
«È
una questione seria, non ridere».
«Non
sto ridendo».
«Ma
soprattutto non ti mettere a ridere dopo che avrai sentito quello che ti sto
per dire».
Dora
aveva un modo tutto suo di scrivere la pagine dell’oroscopo per la rivista; nel
corso della settimana girava per i vari uffici a chiedere ad ognuna di noi cosa
volessimo che ci succedesse nella settimana a venire. Raccoglieva i desideri di
tutte, ci aggiungeva quello che lei chiamava «una dose di poesia con un pizzico
di realismo», distribuiva poi tutto quanto per i dodici segni zodiacali,
impaginandolo appositamente nello spazio che le capitava. C’era chi quelle due
pagine le ritagliava e le leggeva con devozione. C’era chi inviava e-mail,
lettere e addirittura regali, giurando che tutto si era avverato tale e quale a
come aveva previsto lei.
«Ci
azzecco sempre…», esclamava Dora.
C’era
chi diceva che la rivista si vendeva grazie a Dora, che si firmava Eudora «per
dare al tutto un sapore più greco, un po’ come se fosse in confidenza con la
pizia di Delfi». Non ricordavo che la pizia di Delfi si chiamasse Eudora, a
dire il vero non ricordo che la pizia di Delfi avesse un nome. Ma quella
mattina Dora entrò nel mio ufficio con la fronte corrucciata.
«O
mi prepari una ricetta di una torta al cioccolato da scrivere nell’oroscopo del
tuo segno o non sarei così sicura che la prossima settimana non abbia in serbo
per te brutte sorprese».
«Come?»
«Ti
avverto, incontrerai il male sul tuo cammino e potrai avere la meglio solo
prendendolo per la gola».
Rabbrividii.
Tornai
a sentire quel detto della mia infanzia: “per la gola si prende chi fugge dal
nostro cuore”, e cercai di fare buon viso a cattiva sorte.
Risi
e dissi:
«Anche
il male ha la gola?»
«Ti
avevo chiesto di non ridere!»
«Non
sto ridendo, ti sto facendo una semplicissima domanda. Ce l’ha?»
«Solo
con una torta di cioccolato riuscirai a scacciare gli spiriti maligni.»
«Spiriti
maligni che, tra l’altro, sono anche loro ghiotti di torte al cioccolato… mica
male…»
«Torta,
budino, mousse, cioccolatini… l’importante è che ci sia il cioccolato».
Dora
entrò del tutto chiudendo la porta dietro di sé, appoggiò la stampante per
terra per potersi sedere sulla sedia e, seria in volto, esclamò:
«L’ho
visto nelle carte».
Non
mi era mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello che Dora facesse i
tarocchi. Mi aveva sempre fatto ridere il suo metodo, come dire? …poco
ortodosso di studiare gli astri per scrivere l’oroscopo (un segreto che avevo promesso
di portarmi nella tomba), e non avrei mai creduto che, se non per la rivista,
Dora potesse aver qualcosa a che fare con l’astrologia e cose simili.
«Fai
i tarocchi?»
«Nei
casi disperati leggo anche i fondi del caffè».
In
effetti, come dice il vecchio detto: “ogni persona è un universo e la gente non
ne vede nemmeno una piccola parte”. Fu proprio in quel momento che il mio
cellulare inondò l’ufficio con una stridente imitazione di uno dei valzer di
Chopin per avvisarmi che avevo ricevuto un sms.
«Sabato
alle 5. L.»
Stava
per uscirmi di bocca una parolaccia ma mi trattenni. Non ho nulla contro le
parolacce, ma ci sono cose che non si dimenticano col tempo, come ad esempio la
mia lingua ricoperta di sale, la stanza senza finestre di Villa Vittoria dove
rimanevo rinchiusa per tutto il giorno, o altre premure simili di cui
l’infanzia mi aveva fatto dono. Rimasi a fissare il cellulare. Avevo quattro
giorni davanti a me e tutto il peso del mio passato sulle spalle.
Come
dice il vecchio detto: “quando il passato avanza il presente arretra”.
«È
successo qualcosa?», chiese Dora.
«No,
ma se non ti dispiace ora lasciami lavorare che così forse oggi ce la faccio ad
uscire prima, che ho alcune faccende da sbrigare».
«Ma
non dimenticarti di ciò che ti ho detto. Cioccolato. Prepara torte, biscotti,
qualsiasi cosa. E portami la ricetta che la metto nel tuo segno. Qualsiasi
cosa. L’importante è che tu abbia in casa qualcosa al cioccolato da offrire a
chi verrà a trovarti questo fine settimana».
«Viene
a trovarmi qualcuno?»
«Ah,
non te l’ho detto? Con la suoneria di quel cavolo di cellulare mi è passato di
mente… sì, sì. È questa visita che può portarti gli spiriti maligni in casa.
Sta’ attenta».
«Come
dice il vecchio detto: “chi aspetta visite incontra la morte”».
«Non
l’avevo mai sentito questo detto…»
«Mia
madre parlava sempre per detti. O per lo meno, era lei a sostenere che fossero
detti. Ogni tanto me ne esce qualcuno dalla bocca».
«Comunque
sia, fa’ attenzione: il male può entrare nella tua vita quando meno te
l’aspetti e nel modo più subdolo possibile. In punta di piedi… alla luce del
sole… col colore del sangue…»
«Sei
per caso diventata matta? …Ci manca solo che mi dici a che ora…»
«Domani
alle cinque».
«Vattene dal mio ufficio!».
*
Ci
eravamo imbattuti in lei nel bel mezzo del Colombo. Ho sempre odiato il centro
commerciale Colombo, con quelle corsie tutte a semicerchio, tutte uguali, mi ci
perdevo sempre, ma Luís aveva insistito e all’improvviso ecco che lo sento
dire:
«Cavolo!».
E
lei era lì davanti a noi. Non c’era modo di evitarla. Siamo rimasti tutti e tre
in silenzio per alcuni secondi.
Poi
Luís disse:
«Ti
presento Inês».
E
lei disse:
«Inês?!…
Ma Sofia? Dov’è finita Sofia?»
Scosse
la testa con le mèches giallo paglierino e guardandomi bene da di fronte
esclamò:
«Gli
uomini… un giorno si innamorano di una giurando che sarà per sempre e che sarà
con lei che metteranno su famiglia, che fanno sul serio, bambini, rate della
macchina, vacanze al mare, sabati pomeriggio al centro commerciale, che
vogliono invecchiare solo con lei… e poi il giorno dopo ne hanno già un’altra.
Se dovessi star qui a ricordarmi di tutte quelle che mi ha presentato, nella
mia testa non ci sarebbe spazio per nient’altro».
Ridacchiò
e proseguì:
«Proprio
come puoi vedere ho una vita molto intensa, non sono una di quelle che se ne
rimane con le mani in mano, penso che una donna debba aver sempre qualcosa da
fare. Ricamo, faccio la maglia, i tappeti di Arraiolos, le parole crociate e ho
appena iniziato a scoprire il mondo dei social network!»
Luís
e lei, poi, scoppiarono a ridere, mentre io rimasi lì a guardarli, estranea a
quelle che, dopo tutto, erano cose loro. […]”
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