mercoledì 25 dicembre 2013

"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" (seconda parte)


     "Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" 

di 
Alice Vieira

(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)

Racconto tratto da 

"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"

Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro


Edizioni dell'Urogallo, 2013



“[…] Il più grande dispiacere di mia madre era dato dal fatto che io non assomigliavo a Audrey Hepburn. Vivevamo entrambe a Villa Vittoria, abitata dai fantasmi delle donne ormai morte che si erano susseguite nel corso delle generazioni. Ero arrivata lì quand’ero ancora una bambina e non avevo nessun ricordo della mia vita prima di quel momento, non ricordavo neppure che eravamo arrivati da un’isola lontana e di essere finiti lì con mio padre, in quella villa in cui aveva abitato la sua famiglia e in cui non era rimasto più nessuno. Mia madre mi raccontava che avevo gridato per tutto il viaggio.
«Credevo che non avresti resistito».
Ciò avvenne però molto prima che lei cominciasse a capire, dagli sguardi delle vicine e dai mormorii degli uomini al bar che cessavano appena entrava lei. Molto prima che sentisse qualcuno pronunciare vicino a lui il nome di Laura e che lei chiedesse:
«Chi è Laura?», senza che nessuno le desse risposta, mentre tutti si voltavano dall’altra parte cambiando discorso.
Molto prima di capire che da dietro ai vetri della villa di fronte una donna la spiava tutte le volte che usciva ed entrava in casa oppure quando si affacciava alla finestra a guardare il fiume con nostalgia del mare.
Molto prima che le spiegassero la maledizione di quella terra: gli uomini che da lì se ne andavano, lì facevano ritorno sempre. E le donne di quella terra restavano per sempre dentro alle loro vite anche se loro ritornavano con altre. L’anziano signore che tutti i mesi veniva a sistemarci il giardino diceva sempre:
«Le donne di questa terra sono come la terra stessa; e la terra nessuno la vende, nessuno la cambia».
Le donne di quella terra si imponevano con tutta lo loro forza, caparbie, vincenti, eterne.
Le altre rimanevano le altre.
Mia madre, tuttavia, cercò di nuovo di strappare di bocca a mio padre la risposta a quella domanda:
«Chi è Laura?»
Ma lo sguardo algido di mio padre, quasi a voler dire: «Non fare domande».
Le diede tutte le risposte che cercava.
Chiuse le finestre, tirò le tende e, fino alla sua morte, non mise mai più piede in strada. Poteva anche non essere una donna di quella terra ma le si leggeva la vergogna in volto.
*
Lei continuava a fissare le mie mani, la ciotola, le chiare e quel liquido giallognolo. E ripeteva:
«È il sangue, te l’ho già detto. Non c’è nulla da fare».
Smisi di sbattere le chiare.
E lei disse:
«È il sangue».
Ripresi a sbattere le chiare, cercando di ignorarla perché così mi aveva detto di fare Dora.
*
Dora era spuntata quella mattina con una faccia da funerale. La sua testa aveva fatto capolino dalla porta del loculo in cui io mi occupavo della parte pubblicitaria della rivista e mi aveva chiesto:
«Conosci una ricetta col cioccolato?»
Mi colse alla sprovvista. In redazione, Dora aveva il solo compito di scrivere le pagine dell’oroscopo e io non capivo che cosa c’entrassero gli astri con la più grande minaccia per il colesterolo e per la taglia 42.
«È una questione seria, non ridere».
«Non sto ridendo».
«Ma soprattutto non ti mettere a ridere dopo che avrai sentito quello che ti sto per dire».
Dora aveva un modo tutto suo di scrivere la pagine dell’oroscopo per la rivista; nel corso della settimana girava per i vari uffici a chiedere ad ognuna di noi cosa volessimo che ci succedesse nella settimana a venire. Raccoglieva i desideri di tutte, ci aggiungeva quello che lei chiamava «una dose di poesia con un pizzico di realismo», distribuiva poi tutto quanto per i dodici segni zodiacali, impaginandolo appositamente nello spazio che le capitava. C’era chi quelle due pagine le ritagliava e le leggeva con devozione. C’era chi inviava e-mail, lettere e addirittura regali, giurando che tutto si era avverato tale e quale a come aveva previsto lei.
«Ci azzecco sempre…», esclamava Dora.
C’era chi diceva che la rivista si vendeva grazie a Dora, che si firmava Eudora «per dare al tutto un sapore più greco, un po’ come se fosse in confidenza con la pizia di Delfi». Non ricordavo che la pizia di Delfi si chiamasse Eudora, a dire il vero non ricordo che la pizia di Delfi avesse un nome. Ma quella mattina Dora entrò nel mio ufficio con la fronte corrucciata.
«O mi prepari una ricetta di una torta al cioccolato da scrivere nell’oroscopo del tuo segno o non sarei così sicura che la prossima settimana non abbia in serbo per te brutte sorprese».
«Come?»
«Ti avverto, incontrerai il male sul tuo cammino e potrai avere la meglio solo prendendolo per la gola».
Rabbrividii.
Tornai a sentire quel detto della mia infanzia: “per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore”, e cercai di fare buon viso a cattiva sorte.
Risi e dissi:
«Anche il male ha la gola?»
«Ti avevo chiesto di non ridere!»
«Non sto ridendo, ti sto facendo una semplicissima domanda. Ce l’ha?»
«Solo con una torta di cioccolato riuscirai a scacciare gli spiriti maligni.»
«Spiriti maligni che, tra l’altro, sono anche loro ghiotti di torte al cioccolato… mica male…»
«Torta, budino, mousse, cioccolatini… l’importante è che ci sia il cioccolato».
Dora entrò del tutto chiudendo la porta dietro di sé, appoggiò la stampante per terra per potersi sedere sulla sedia e, seria in volto, esclamò:
«L’ho visto nelle carte».
Non mi era mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello che Dora facesse i tarocchi. Mi aveva sempre fatto ridere il suo metodo, come dire? …poco ortodosso di studiare gli astri per scrivere l’oroscopo (un segreto che avevo promesso di portarmi nella tomba), e non avrei mai creduto che, se non per la rivista, Dora potesse aver qualcosa a che fare con l’astrologia e cose simili.
«Fai i tarocchi?»
«Nei casi disperati leggo anche i fondi del caffè».
In effetti, come dice il vecchio detto: “ogni persona è un universo e la gente non ne vede nemmeno una piccola parte”. Fu proprio in quel momento che il mio cellulare inondò l’ufficio con una stridente imitazione di uno dei valzer di Chopin per avvisarmi che avevo ricevuto un sms.
«Sabato alle 5. L.»
Stava per uscirmi di bocca una parolaccia ma mi trattenni. Non ho nulla contro le parolacce, ma ci sono cose che non si dimenticano col tempo, come ad esempio la mia lingua ricoperta di sale, la stanza senza finestre di Villa Vittoria dove rimanevo rinchiusa per tutto il giorno, o altre premure simili di cui l’infanzia mi aveva fatto dono. Rimasi a fissare il cellulare. Avevo quattro giorni davanti a me e tutto il peso del mio passato sulle spalle.
Come dice il vecchio detto: “quando il passato avanza il presente arretra”.
«È successo qualcosa?», chiese Dora.
«No, ma se non ti dispiace ora lasciami lavorare che così forse oggi ce la faccio ad uscire prima, che ho alcune faccende da sbrigare».
«Ma non dimenticarti di ciò che ti ho detto. Cioccolato. Prepara torte, biscotti, qualsiasi cosa. E portami la ricetta che la metto nel tuo segno. Qualsiasi cosa. L’importante è che tu abbia in casa qualcosa al cioccolato da offrire a chi verrà a trovarti questo fine settimana».
«Viene a trovarmi qualcuno?»
«Ah, non te l’ho detto? Con la suoneria di quel cavolo di cellulare mi è passato di mente… sì, sì. È questa visita che può portarti gli spiriti maligni in casa. Sta’ attenta».
«Come dice il vecchio detto: “chi aspetta visite incontra la morte”».
«Non l’avevo mai sentito questo detto…»
«Mia madre parlava sempre per detti. O per lo meno, era lei a sostenere che fossero detti. Ogni tanto me ne esce qualcuno dalla bocca».
«Comunque sia, fa’ attenzione: il male può entrare nella tua vita quando meno te l’aspetti e nel modo più subdolo possibile. In punta di piedi… alla luce del sole… col colore del sangue…»
«Sei per caso diventata matta? …Ci manca solo che mi dici a che ora…»
«Domani alle cinque».
«Vattene dal mio ufficio!».
*
Ci eravamo imbattuti in lei nel bel mezzo del Colombo. Ho sempre odiato il centro commerciale Colombo, con quelle corsie tutte a semicerchio, tutte uguali, mi ci perdevo sempre, ma Luís aveva insistito e all’improvviso ecco che lo sento dire:
«Cavolo!».
E lei era lì davanti a noi. Non c’era modo di evitarla. Siamo rimasti tutti e tre in silenzio per alcuni secondi.
Poi Luís disse:
«Ti presento Inês».
E lei disse:
«Inês?!… Ma Sofia? Dov’è finita Sofia?»
Scosse la testa con le mèches giallo paglierino e guardandomi bene da di fronte esclamò:
«Gli uomini… un giorno si innamorano di una giurando che sarà per sempre e che sarà con lei che metteranno su famiglia, che fanno sul serio, bambini, rate della macchina, vacanze al mare, sabati pomeriggio al centro commerciale, che vogliono invecchiare solo con lei… e poi il giorno dopo ne hanno già un’altra. Se dovessi star qui a ricordarmi di tutte quelle che mi ha presentato, nella mia testa non ci sarebbe spazio per nient’altro».
Ridacchiò e proseguì:
«Proprio come puoi vedere ho una vita molto intensa, non sono una di quelle che se ne rimane con le mani in mano, penso che una donna debba aver sempre qualcosa da fare. Ricamo, faccio la maglia, i tappeti di Arraiolos, le parole crociate e ho appena iniziato a scoprire il mondo dei social network!»

Luís e lei, poi, scoppiarono a ridere, mentre io rimasi lì a guardarli, estranea a quelle che, dopo tutto, erano cose loro. […]”

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