martedì 28 febbraio 2012

Uma palavra por semana: "Batuque"


La parola batuque indica un tipo di tamburo di origine africana, ma anche un genere di musica e una danza.

Batucar significa ballare il batuque; battere ritmicamente, ripetutamente.

Il batuque è uno dei generi musicali più rappresentativi della Ilha de Santiago (Capo Verde) ed è caratteristico dei più importanti momenti conviviali delle comunità (feste religiose, matrimoni, cerimonie pubbliche). Attraverso i testi, cantati prevalentemente da donne, si esprimono gioia e ammirazione, ma anche critiche nei confronti delle persone e degli avvenimenti che contraddistinguono la vita quotidiana della comunità.
Il batuque trae origine dai primi schiavi portati a Capo Verde intorno al 1462. Durante il periodo coloniale venne severamente proibito perché considerato offensivo della morale, ma il batuque riuscì a sopravvivere, soprattutto nelle zone rurali, grazie a una forte resistenza culturale e al costante tramandarsi di generazione in generazione.

Julio Silvão Tavares è autore del documentario “Batuque, a alma de um povo”. Andando al di là della semplice visione storica, il film offre momenti di grande intimità con la pratica del batuque e con il gruppo Raiz de Tambarina, uno dei più antichi della Ilha de Santiago. I protagonisti del documentario condividono con lo spettatore la loro passione per il batuque e permettono così di scoprire molti aspetti della cultura capoverdiana di ieri e di oggi.

Qui trovate un estratto del documentario.


giovedì 23 febbraio 2012

Tradizioni del popolo Makonde: la danza Mapiko in Mozambico

La danza Mapiko dei Makonde è una delle danze rituali più conosciute del Mozambico settentrionale. Si dice che sia nata come tentativo dei maschi di imitare il potere matriarcale delle donne. I danzatori, che sono sempre uomini, indossano maschere di legno speciali che di solito hanno fattezze esasperate e sono decorate con capelli e colori. L'idea è che il danzatore rappresenti lo spirito di un morto venuto sulla terra a far del male a donne e bambini e che solo gli uomini possono sconfiggere.
I Makonde, una popolazione che vive al confine tra il Mozambico e la Tanzania (attuale diocesi di Pemba), narrano che molto tempo fa, nella foresta africana, abitava un mostro selvaggio. Non era né uomo né animale e viveva sempre appartato. Non si lavava mai né si tagliava i capelli. Beveva soltanto il minimo indispensabile per sopravvivere; un giorno, visto un bell'albero, lo tagliò, lo sfrondò, ne tolse la corteccia e scolpì una figura femminile. Era di una bellezza indescrivibile. Compiaciuto della sua opera, il mostro volle tenersela con sé per sempre. Una notte, però, la scultura divenne donna viva. Il mostro se ne innamorò e l'amò. Giunto il momento di partorire, i due si recarono al fiume. La donna partorì un primo figlio morto, quindi un secondo, anch'egli morto; solo il terzo nacque vivo: era un uomo, il primo makonde. Questo mito sull'origine dell'uomo spiega perché la figura femminile sia il soggetto principale e più frequente della scultura di questo popolo. 
Gli artisti Makonde si esprimono principalmente in tre generi plastici, anteriori all'epoca coloniale. Con il primo si rappresentano teste di donna raffiguranti la capostipite, venerata e invocata come protettrice nei viaggi, nelle avversità, nella maternità e nella morte. Il secondo è costituito da gruppi scultorei in legno o creta, ad uso didattico, con soggetti realistici, che ritraggono scene di vita quotidiana atte alla formazione dei giovani. Attraverso tali sculture, gli inizianti imparano i segreti della vita lavorativa, coniugale, familiare e sociale, abbracciando tutto l'arco vitale, dalla nascita alla morte. Il terzo genere fa capo alla maschera Mapiko, personificazione del maligno, che era conservata in un tempietto situato in luogo appartato rispetto al villaggio. Era permesso vedere la maschera sacra solo nelle cerimonie e nelle danze iniziatiche, di fertilità o di guerra. Il Mapiko, circondato da tabù, infondeva il terrore sacro e il segreto veniva rivelato solo ai giovani maschi in ambito rituale; mai alle donne, che pure partecipavano alle danze rituali.
Nella danza Mapiko le maschere possono coprire il viso (“máscara facial”) o il capo intero (“máscara capacete”): entrambe sono fatte di legno e hanno un profondo significato religioso e cerimoniale, legato al rituale dell’iniziazione maschile. Il danzatore che esegue la coreografia, molto ritmica e cadenzata, oltre a indossare le maschere caratteristiche, è coperto di oggetti sonori (chocalhos, “sonagli”) ed è accompagnato da vari percussionisti, con i loro tamburi di legno e coperti di pelle d’animale. Questa danza ha come sottofondo un gruppo di cantanti, uomini e donne.
È da sottolineare che la danza Mapiko è senza dubbio un insieme di musica, danza, scultura e teatro, e rappresenta nell’immaginario collettivo il mondo soprannaturale.

lunedì 20 febbraio 2012

Uma palavra por semana: “Viagem”

Viagem
É o vento que me leva.
O vento lusitano.
É este sopro humano
Universal
Que enfuna a inquietação de Portugal.
É esta fúria de loucura mansa
Que tudo alcança
Sem alcançar.
Que vai de céu em céu,
De mar em mar,
Até nunca chegar.
E esta tentação de me encontrar
Mais rico de amargura
Nas pausas da ventura
De me procurar...

Viagem, Miguel Torga, in “Diário XII”
Viagem significa “viaggio”, in senso fisico (spostamento da un luogo all’altro) ma anche mentale (gergo popolare, effetto psicotropico dovuto all’utilizzo di droghe). Deriva dal provenzale “viatge”, che a sua volta deriva dal latino “viaticu”.
È forse da questa doppia etimologia che va ricercato il motivo per cui nella lingua portoghese, rispetto all’italiano, la parola è femminile (“a viagem”). Il plurale viene formato, come tutte le parole che hanno questa terminazione, aggiungendo –ns al posto di –m (“as viagens”).
Viagem non è da confondere con viajem, che è invece la terza persona del congiuntivo presente del verbo viajar (“viaggiare”).
Contesti d’uso:
Fazer uma viagem (“fare un viaggio”)
Viagem de negócios (“viaggio d’affari”)
Viagem de recreio (“viaggio di piacere”)
Seguir, sair de viagem (“partire”)
Viagem de ida, de volta (“viaggio di andata, ritorno”)
Viagem de núpcias (“viaggio di nozze”)
Boa viagem! (“buon viaggio!”)


venerdì 17 febbraio 2012

La memoria coloniale a Berlino: "Tabu" di Miguel Gomes

Tabu, Il nuovo film del regista portoghese Miguel Gomes, in bianco e nero, è stato presentato in concorso al Festival di Berlino 2012. Basato su fatti reali, ambientato sullo sfondo del colonialismo in Africa e frutto di una coproduzione fra Brasile, Francia, Germania e Portogallo, l’ultimo lavoro di Miguel Gomes recupera in modo attraente e originale la memoria del passato di Aurora (Laura Soveral), un’anziana signora che ricorda la vita in una tipica fazenda dell’Africa coloniale e il suo amore perduto.
L’autore di O Meu Querido Mês de Agosto ha affermato nella conferenza stampa del festival che preferisce “un dialogo con la memoria cinematografica”, piuttosto di “un omaggio”, non essendo interessato a un “cinema fatto di citazioni”. Eppure è forte in questo suo lavoro la presenza di riferimenti al cinema muto classico e l’influenza di autori come Murnau.
"Questo è sicuramente un omaggio al cinema americano classico, specialmente a quello muto, anche se non mi piace parlare di omaggi perché certo il cinema non ne ha bisogno. Credo che diverse influenze e memorie cinematografiche abbiano agito su di me inconsciamente; qualcosa si era da tempo depositato nella mia memoria. Conosco bene il cinema di Murnau; specie da ragazzo ho avuto modo di studiarlo e approfondirlo, lo ritengo un grandissimo autore ed è inevitabile che qualsiasi cineasta ne venga influenzato, ma ripeto il film non ha riferimenti specifici ad altre pellicole è piuttosto una storia a sé stante. Ho voluto raccontare una storia sulle diverse fasi della vita, sull’amore ma anche sulla solitudine in una dimensione romantica fin dall’inizio del film, accompagnata da connotazioni barocche. A prescindere da questa impronta, in generale non mi piace che ci sia una sola grande idea a dominare il tutto, ma voglio sempre esplorare punti di vista diversi. Nel film sono presenti elementi propri del periodo coloniale uniti a suggestioni più esotiche, e questo non vuole essere una critica diretta al colonialismo quanto ad un certo tipo di società”.
(Si veda l'intervista completa qui)

lunedì 13 febbraio 2012

Uma palavra por semana: "chá" o "xá"?

Chá significa tè, infuso.
La parola "tè" deriva dalla resa tê (pronuncia tei) del carattere cinese nel dialetto min meridionale diffuso nel sud del Fujian e a Taiwan.
Da questa pronuncia cinese derivano, con lievi varianti, le parole per tè in: malese, danese, inglese, spagnolo, svedese, yiddish, ebraico, cingalese, tamil, finlandese, francese, italiano, lettone, tedesco, olandese e ungherese.
Dalle pronunce piuttosto simili del carattere cinese nei dialetti settentrionali (Pinyin: chá) e in cantonese derivano i nomi del tè in: giapponese, persiano, arabo, turco, russo, portoghese, ceco, slovacco, serbo, uzbeco, hindi, tibetano e romeno. Entrambe le varianti fonetiche sono state trasmesse dalla Cina ai vari paesi del mondo, seguendo i due percorsi diversi.

La parola chá non è da confondersi con la parola xá.

Xá (“scià”, in italiano) infatti è di origine persiana e la parola è entrata nel vocabolario portoghese grazie all’influenza araba nel XVI secolo. Interessante notare che le parole di origine araba o trasmesse dagli arabi nel vocabolario portoghese sono spesse caratterizzate dalla consonante iniziale x (Es. xairel, xeque, xadrez, xaile).

Alcune espressioni con chá:

Não ter tomado, bebido chá em pequeno, em criança (“essere scostumato, maleducato”)
Falta de chá (“mancanza di buona educazione”)
Chá de marmeleiro (“bastonata, randellata”)
Dar, tomar chá (“fare lo spiritoso”)
Dar um chá (“alludere, fare delle illusioni, fare una ramanzina”)
Tomar chá de sumiço (“sparire, svignarsela”)
Tomar chá de cadeira (“aspettare a lungo”)

giovedì 9 febbraio 2012

Novità in libreria: “Lussuria” di João Ubaldo Ribeiro

Impudico e provocatore il nuovo romanzo di João Ubaldo Ribeiro , uscito la prima volta nel 2006 per Cavallo di Ferro e ora riproposto in edizione tascabile da Beat Edizioni.
Questo romanzo, dedicato alla Lussuria, è il quarto volume della famosa serie sui Sette Peccati Capitali, promossa dalla casa editrice brasiliana Objetiva. Proprio mentre i giornali annunciano che João Ubaldo Ribeiro sta scrivendo un libro sulla Lussuria, lo scrittore riceve un manoscritto. Sono gli originali del testo che viene pubblicato e permettono ai lettori di conoscere la storia di un personaggio affascinante ed eccezionale in tutti i sensi: CLB, una donna di 68 anni di Rio de Janeiro che nella sua vita non si è mai tirata indietro quando si è trattato dei piaceri e delle infinite possibilità offerte dal sesso.
Il grande maestro della letteratura brasiliana ha scritto un libro senza censure, provando che sotto l’Equatore il peccato non esiste…
«Una provocazione ironica e acuta, un’aggressione ai fanatismi di femminismo e maschilismo, un attacco alla violenta ipocrisia della Chiesa, una burla filosofica su tutto». Leonetta Bentivoglio, “La Repubblica”
João Ubaldo Ribeiro è uno dei nomi più importanti e di successo della letteratura brasiliana. Appartiene alla prestigiosa Academia Brasileira de Letras. È tradotto in più di sedici paesi e ha ottenuto vari premi (per due volte lo Jabuti). Due film e una fiction televisiva sono stati tratti dai suoi romanzi. Bahiano dell'isola di Itaparica, è nato il 23 gennaio del 1941. Il suo primo romanzo, scritto a ventun anni, è del 1962: Setembro não tem sentido. Raggiunge la notorietà nel 1971 con il secondo romanzo, Sargento Getúlio: uno dei romanzi 'decisivi' della produzione contemporanea, come sottolinea Jorge Amado nell’introduzione che accompagna la prima edizione. Seguono poi, Vencecavalo e o outro povo (1974) e Livros de histórias (1981), il romanzo-saga, Viva o povo brasileiro (1984) («Viva il popolo brasiliano, Frassinelli»), O sorriso do lagarto(1989), O feitiço da ilha do pavão (1997) e Diário do Farol (2002).

mercoledì 8 febbraio 2012

Uma palavra por semana: "Céu"

Céu deriva dal latino coelum o caelum. Significa cielo, firmamento, infinito, ma anche Paradiso, Provvidenza.

Riportiamo qui di seguito alcune espressioni tipiche o modi di dire che contengono la parola “céu”.

“Céus!”, esclamazione che esprime spavento, sorpresa.

“Meu Deus do céu!”, è un’espressione molto comune soprattutto in Brasile.

“Cair do céu aos trambolhões”, arrivare in maniera improvvisa, ma a proposito;

“De bradar aos céus”, scandaloso, sconvolgente, scioccante;

“Estar no sétimo céu”, essere al settimo cielo;

“Prometer o céu e a terra”, promettere l’impossibile;

“Mover céu e terra”, fare tutto il possibile per ottenere qualcosa.



Alberto Caeiro, Gosto do céu

Gosto do céu porque não creio que elle seja infinito.
Que pode ter comigo o que não começa nem acaba?
Não creio no infinito, não creio na eternidade.
Creio que o espaço começa numa parte e numa parte acaba.
E que agora e antes d'isso ha absolutamente nada.
Creio que o tempo tem um princípio e tem um fim.
E que antes e depois d'isso não havia tempo.
Porque ha de ser isso falso?Falso é fallar de infinitos
Como se soubéssemos o que são de os podermos entender.
Não: tudo é uma quantidade de cousas.
Tudo é definido, tudo é limitado, tudo é cousas.



Poesia inedita, senza data, trascritta da Jerónimo Pizarro. Fonte: Público, 13/06/2008.

Questa poesia di Alberto Caeiro-Fernando Pessoa ha suscitato varie polemiche da parte dei critici, si veda, ad esempio, la Carta ao público de Álvaro de Campos di Teresa Rita Lopes.