sabato 22 febbraio 2014

Oscar 2014: un portoghese in lizza nel corto d’animazione

Daniel Sousa in cinquina in concorso con “Feral”



Si chiama Daniel Sousa, ha 39 anni, è nato a Capo Verde e ha trascorso l'infanzia nei pressi di Lisbona dov'è rimasto fino all'età di 12 anni. Basterebbe questo breve identikit a spiegare il perché dell'interesse da parte del Diario Portoghese, ma andiamo avanti. Era ancora un ragazzo quando si è trasferito negli Stati Uniti, dove tuttora vive e insegna nella prestigiosa Rhode Island School of Design, dove lui stesso ha studiato animazione imparando il mestiere che lo ha fatto conoscere, a livello mondiale, in quel particolare ramo della cinematografia.

Come mai abbiamo deciso di parlarne proprio in questo periodo? Perché sta montando l'attesa circa i risultati degli Oscar 2014, che saranno resi noti il 2 marzo p.v., e Daniel Sousa si trova nella cinquina in concorso col suo cortometraggio animato "Feral". Il solo fatto di essere selezionati per gli Oscar costituisce in sé una vittoria, ma va detto che Sousa ha già fatto parecchia strada nel settore. Con le sue cinque opere - Minotaur, Fable, The windmill, Drift e Feral - ha partecipato ai principali Festival di ogni Continente accumulando così tanti premi e menzioni che trascrivere qui il suo Palmarès riempirebbe troppo spazio. Quanto a "Feral", arriva all'appuntamento di Los Angeles dopo essere stato acclamato miglior corto della categoria in manifestazioni quali Anima Mundi (Brasile), Woodstock Film Festival (Usa), Toronto Animation Festival (Canada) oltreché a Busan (Korea) a KroK (Ucraina) e ad Annecy (Francia), solo per citarne alcuni.

sabato 15 febbraio 2014

Il Pantheon Nazionale di Lisbona: una storia di leggende, maledizioni e ricostruzioni


C’è un luogo a Lisbona dove risuonano le note e la voce della più celebre cantante portoghese di fado, Amália Rodrigues. Non stiamo parlando di uno dei tanti locali che animano i vicoli del Bairro Alto, ma della chiesa di Santa Engrácia, oggi Pantheon Nazionale. Famoso per la sua imponente cupola che domina il profilo della capitale, l’edificio ospita al suo interno i resti mortali di alcuni degli esponenti più rappresentativi della storia e cultura portoghese: da Sidónio Pais, il Presidente della Repubblica assassinato nel 1918, agli scrittori Almeida Garrett, Guerra Junqueiro e João de Deus, passando per la già citata cantante di fado. Al varcare la soglia dell’edificio, ci si accorge nell’immediato che la chiesa è sconsacrata: non ci sono simboli religiosi sull’altare e lo spazio più nobile sembra essere quello di un’enorme piazza fatta per passeggiare. È difficile immaginarlo al tempo in cui serviva da deposito di armi o come fabbrica di scarpe dell’esercito (secoli XIX e XX).

La sua storia è tormentata e passa per leggende, maledizioni e calamità naturali. Certo è che questo esempio di tempio barocco, considerato unico nel suo genere da molti storici dell’arte, dovette aspettare moltissimi anni prima di essere portato a termine. La chiesa primitiva, della quale oggi non resta nulla, fu eretta nel 1568 per volontà di D. Maria (1521-1577), figlia di D. Manuel I, ma venne quasi completamente rasa al suolo durante una tempesta nel 1681. L’anno seguente venne posata la prima pietra dell’attuale edificio. Il progetto della ricostruzione fu affidato al maestro João Antunes, ma vedrà la conclusione solo nel 1966, per ordine dell’allora Presidente del Consiglio António de Oliveira Salazar. Erano passati 284 anni.

L’espressione popolare “obras de Santa Engrácia”, usata in portoghese per designare qualcosa che tarda a concludersi, è solo uno dei dati associati alla chiesa. Un altro è la figura di Simão Solis, un cristão-novo che nel 1630 fu accusato di avere profanato il tempio, per avere rubato le ostie conservate nella sagrestia. La leggenda narra che Solis, visto a girovagare attorno alla chiesa durante la notte dell’assalto, con le zampe del suo cavallo protette da dei panni per non fare rumore, giurò sino alla morte che era innocente. Prima di essere bruciato vivo nel Campo de Santa Clara, lanciò una maledizione alla chiesa ancora in costruzione: “É tão certo morrer inocente como as obras nunca mais acabarem!”. Il vero ladro fu identificato più tardi, quando si scoprì il vero motivo per cui Solis non volle mai dire cosa ci faceva vicino alla chiesa quella notte: era in attesa di Violante, la figlia di un nobile e novizia al Convento di Santa Clara, per fuggire insieme a lei.

sabato 8 febbraio 2014

"Lusoclássicos": "Budapest" di Chico Buarque

Nella sua rubrica "Lusoclássicos", Andrea Sironi ci guida alla riscoperta di un "ironico tour de force letterario", Budapest. Il suo autore, Chico Buarque, celebre come uno dei compositori e interpreti più rappresentativi del panorama musicale brasiliano, conferma con questo romanzo il suo straordinario talento linguistico: "un rarissimo esemplare di intellettuale a tutto campo", "un acrobata della parola", così come è stato definito da Gianni Mura in un articolo del 26/02/2005 su La Repubblica. 

Budapest, di Chico Buarque
Quella lingua magiara che “è la sola che il diavolo rispetti”



Budapest, uscito nel 2006 in Italia nell'edizione edita da Feltrinelli e tradotta da Roberto Francavilla, è il penultimo romanzo di Chico Buarque e il primo ad essere pubblicato nel nostro Paese. All’interno dell’opera del popolare musicista, nonché scrittore e compositore brasiliano, il romanzo riveste un ruolo di prim'ordine, testimoniato dagli importanti consensi ottenuti dalla critica e dal mezzo milione di copie vendute nel mondo. Del resto lo stile scorrevole e immediato, la successione degli eventi incalzante e un’ironia che a tratti si fa pungente sono le caratteristiche che conferiscono al romanzo quella che Saramago ha definito “una maestria del linguaggio, della costruzione narrativa, del fare semplice”.

José Costa vive a Rio de Janeiro, è sposato con la bella giornalista televisiva Vanda e lavora come ghost-writer presso l’agenzia culturale dell'amico Alvaro Cunha. In un cassetto sotto la scrivania custodisce gelosamente gli anonimi capolavori che compila ironicamente, divertito da come il suo nome risulti straniero alle vetrine delle librerie.
Un evento sconvolge però la sua vita in concomitanza con il mancato scalo aereo che da Istanbul, sede designata all'annuale congresso dei ghost-writers a cui José abitualmente prende parte, dovrebbe riportarlo in Brasile. L'aereo devia la sua traiettoria e lo scrittore si ritrova a Budapest, dove di fatto entra in contatto con quella lingua magiara, “la sola che il diavolo rispetti”, che lo seduce e rapisce. Assistiamo a come sia il caso ad operare, a sconvolgere le prospettive e a cambiare irreversibilmente le priorità di un protagonista che conduce una vita ordinaria, tra matrimonio e nottate passate a scrivere per altri.

Le incursioni all’interno della struttura e dei foni ugrofinnici, autentico piano di riconfigurazione identitaria, lo porteranno a dividersi tra Vanda e Krista, giovane donna dalle labbra sottili e gli “zigomi lievemente prominenti”, e a tracciare un’indagine esistenziale alternativa, potenzialmente pericolosa e combattuta. Tutto questo mentre in Patria, paradossalmente, la biografia romanzata commissionatagli spopola. Tornato a Rio Zsoze Kósta, allineatosi ormai ad un registro differente rispetto a quello antecedente al suo viaggio, conosce una profonda crisi. La dimensione del viaggio risiede quindi nel confronto con il sé, più che con i luoghi sconosciuti. Secondo quest'ottica una lingua ancora inesplorata altri non è che un limite socioculturale che, ad impatto, rende ulteriormente complicate le interazioni e può portare a inaspettati risvolti.

Ecco illustrati, secondo una nota del traduttore, i significati contenuti nel viaggio inteso come metafora, strumento che ci permette di capire in che termini la linguistica sia una delle esperienze determinanti nella costruzione dell'identità.


(Edizione consultata: Chico Buarque, Budapest, Feltrinelli, Milano, 2006. Traduzione di Roberto Francavilla). 

lunedì 3 febbraio 2014

António Lobo Antunes: vince Premio Internazionale Nonino 2014

Riceve il riconoscimento da Claudio Magris che lo omaggia anche sul Corriere della Sera



"La prosa del narratore lusitano è il canto struggente di un ribelle senza pace che polifonicamente distrugge la sintassi. Uno scrivere dove violenza e malinconia sono immerse in una solitudine metafisica e si intrecciano. Una marea incessante di morte e follia annegate in un crudo realismo, acide passioni inconfessate di un naufragio simbolo del nostro simulacro di felicità."

Con questa motivazione è stato assegnato ad António Lobo Antunes il Premio Internazionale Nonino 2014, giunto quest'anno alla 39/ma edizione. La cerimonia di premiazione si è svolta domenica 26 gennaio u.s. a Percoto, località friulana dove ha sede la celebre casa produttrice di grappe che dà il nome al Premio, la cui giuria è presieduta dal Nobel V.S. Naipaul e composta tra gli altri da Ermanno Olmi, Edgar Morin e Claudio Magris. E' spettato proprio allo scrittore triestino consegnare l'importante riconoscimento al collega portoghese.

Per i lettori del nostro Blog, António Lobo Antunes non certo ha bisogno di presentazioni. E' con non poca gioia che condividiamo la notizia sul diario portoghese, lusingati dal prestigio conferito non solo a quello che attualmente è considerato il principale scrittore portoghese vivente (complice anche la scomparsa del Premio Nobel José Saramago con cui si contendeva il primato), ma alla letteratura lusofona in senso lato. Nato a Lisbona da famiglia brasiliana, Antunes rappresenta bene anche una grande ex colonia come l'Angola, avendo partecipato alla guerra coloniale come medico durante il servizio militare e avendo tratto da quell'esperienza ricorrenti fonti d'ispirazione per la sua copiosa narrativa. In occasione della sua venuta in Italia per ritirare il premio, l'autore portoghese edito a casa nostra da Feltrinelli è stato al centro di interesse mediatico, sia tramite interviste sia tramite articoli dedicati alla sua opera.

Ne ha scritto, in termini di smisurata stima, lo stesso Claudio Magris sul Corriere della Sera. Rimandiamo al link sottostante l'invito a godersi per intero le parole di Magris, limitandoci ad estrapolarne solo alcune. Ad esempio: "La scrittura, per Lobo Antunes, è un fiume in piena, una mareggiata di tante opere che è quasi impossibile elencare tutte insieme ai loro traduttori". E ancora: "Come un classico antico, Lobo Antunes raccoglie e tramanda la memoria storica del suo Paese, il Portogallo: La Spiegazione degli uccelli (1981) e Lo splendore del Portogallo (1997) illustrano, in chiave diversa, gli anni tra la caduta della dittatura di Salazar e una nuova realtà ancora tarata; nella Storia affondano pure le storie dei personaggi de Le navi (1968) o del Manuale degli inquisitori (1996). Ma questa memoria, insieme totale e dispersa in un pulviscolo di particolari ferocemente e dolorosamente insensati, è una palude limacciosa e ingannevole, quasi una mostruosa pianta carnivora che divora eventi, uomini e parole." Definisce poi senza mezzi termini un "capolavoro" Arcipelago dell'insonnia (2008).

Nel concludere il ritratto dello scrittore premiato, Magris azzarda questa convinzione: "Credo che per lui vivere sia scrivere, solo scrivere, sempre scrivere, tessere un'enorme ragnatela di parole sperando di non poterne mai uscire; vivere per scrivere e scrivere per non vivere, costruire labirinti senza bisogno di un Minotauro al loro centro, perché la vita è piena di Minotauri, ce ne sono dappertutto pronti a divorare le vittime. Forse lo scrittore, nel labirinto delle sue parole, è proprio il Minotauro." Colpisce l'attenzione riservata dallo scrittore triestino al lavoro dei traduttori, cosa piuttosto rara, che volentieri citiamo: "Bisogna essere grati ai traduttori come Vittoria Martinetto e Rita Desti, sempre colpevolmente e ignorantemente trascurati, come accade a tutti i traduttori nella nostra incultura, che ci permettono di leggere in tutta la sua forza un grande scrittore visionario, dimostrando una creatività linguistica degna della sua." 

Lo scrittore Federico Pace, su MagazineRoma.it, oltre a diffondersi sull'opera di Lobo Antunes con ammirazione, lamenta la carenza di suoi libri tradotti in Italiano. Riprendiamo le parole testualmente, musica per le orecchie del nostro Blog che da sempre si spende per la divulgazione delle letteratura lusofona, sia in lingua originale sia tradotta. "A Percoto non sappiamo -osserva Pace- se si parlerà del mistero dei suoi libri mai arrivati in Italia. Del perché un autore così grande, così riconosciuto, così meritevole di entrare ogni anno nella lista dei candidati al Nobel, abbia un gruzzolo di libri che noi italiani non abbiamo mai avuto la possibilità di leggere". Quindi li elenca: "Memoria de Elefante, Fado Alexandrino, Livros De Cronicas, Nao Entres Tao Depressa Nessa Noite Escura, Segundo Livro de Cronicas, Eu Hei-de Amara Uma Pedra, Terceiro Livro de Cronicas, Ontem Nao Te Vi Em Babilonia, O Meu nome é Legiao, Que Cavalos Sao Aqueles Que Fazem Sombra no Mar, Sobolos Rios Que Vao, Quarto Livro de Cronicas, Comissao das Làgrimas, Nao E' Mei Noite Que Quer, Quinto Livro de Cronicas, Caminha Como Numa Casa em Chamas. Un bel numero davvero", commenta Pace.

Intervistato da Sebastiano Triulzi per Repubblica, Lobo Antunes fornisce dettagli sul duro lavoro dello scrivere che può rivelarsi utile per ogni aspirante scrittore: “Dedico alla scrittura -dichiara- mediamente dieci ore al giorno e per ogni libro impiego uno o due anni. Il processo più complesso è però la correzione, quanto cambi di ciò che hai scritto; perché un testo non è mai finito, c’è sempre un avverbio, un pronome, un articolo che non convincono. Così quando finalmente chiudo un libro provo un sentimento ambivalente: da un lato sento una specie di sollievo, dall’altro so che ho iniziato a perderlo”.

Alla curiosità dell'intervistatore su quando abbia capito di voler scrivere, Antunes risponde: “All’età di sei o sette anni. Mio padre era un neurologo, professore all’università, ed io il primogenito. Divenni psichiatra -spiega- perché non volevo essere un medico. L’unico mestiere che ho mai desiderato fare nella vita è però lo scrittore. Ho sempre saputo che non sarebbe stato facile, e infatti sono trascorsi molti anni prima che trovassi la mia voce. Ho pubblicato il mio primo libro (Memória de elefante, n.d.r.) a trentasei anni, e quasi fino ad allora la mia reazione era sempre la stessa: così non va. Riscrivevo in continuazione”.