lunedì 25 aprile 2016

Revolução dos Cravos 25 de Abril 1974: le profetiche poesie di Manuel Alegre scritte in esilio

Immaginò molti anni prima il “País de Abril” e i “cravos vermelhos em cada mão” a Lisbona


Come mai la poesia si riveli talora profetica, Manuel Alegre non se lo sa spiegare. Eppure questa domanda gli è stata rivolta spesso, soprattutto nella ricorrenza del 25 aprile, anniversario della rivoluzione dei garofani che segnò la fine della dittatura nel suo Paese, il Portogallo. Alegre (nato ad Águeda nel 1936) poté finalmente rientrare in patria solo dopo quella data, lasciandosi alle spalle una decina d’anni d’esilio come oppositore politico oltre a sei mesi di reclusione nelle carceri di Luanda - Fortaleza de S. Paulo, scontati per aver diretto un tentativo di rivolta militare.
Dall’esilio in Algeria, mentre continuava sia l’attivismo politico iniziato fin da quando studiava legge a Coimbra sia la passione per la scrittura, la sua ispirazione poetica aveva colto con sorprendente anticipo l’immagine della capitale liberata in aprile e dei garofani rossi nelle mani dei portoghesi. Alcune sue visioni, diventate successivamente pagine di storia, già emergevano in antologie pubblicate in Francia e bandite ovviamente dal regime in Portogallo dove tuttavia circolavano clandestinamente, vuoi appuntate su fogli di carta vuoi sussurrate di bocca in bocca.

E tuttora resistono, perché la forza espressa dalla scrittura di Alegre ha oltrepassato le frontiere letterarie assumendo una dimensione simbolica. Pensiamo in particolare alla raccolta “Praça da Canção” del 1965 e a “O Canto e as Armas” del 1967 che contengono poesie i cui versi sono entrati nel mito, in primis la poesia intitolata proprio “País de Abril”. Ad ispirarla era l’agognata svolta del Portogallo, di cui l’autore avvertiva la nostalgia tipica dell’esule, tanto che il tema dell’esilio resterà una sua costante anche dopo il rientro in patria. Qui è facile percepirla:

“Meu amor por ti cantei. E to me deste
um chão tão puro, algarves de ternura.
Por ti cantei, à beira-povo à beira-terra
e achei achando-te o país de Abril
e achei achando-te o país de Abril.”

Altro esempio eloquente di preveggenza riguarda una strofa tratta da “Poemarma” in cui i più hanno identificato addirittura l’annuncio del primo comunicato della rivoluzione. Eccola:

«Que o poema seja microfone e fale
uma noite destas de repente às três e tal
para que a lua estoire e o sono estale
e a gente acorde finalmente em Portugal».

Altrettanto vale per la profezia contenuta in “Lisboa perto e longe” quando recita:

«Lisboa tem um cravo em cada mão
tem camisas que Abril desabotoa
mas em Maio Lisboa é uma canção
onde há versos que são cravos vermelhos
Lisboa que ninguém verá de joelhos».

Da notare che in questa strofa Manuel Alegre cita anche maggio, proprio il mese in cui lui avrebbe fatto ritorno dall’esilio e al quale aveva intitolato pure la poesia “Nós Voltaremos sempre em Maio” con un presentimento che lascia attoniti.

In un’intervista concessa al “Jornal de Letras”, alla domanda se ricordi com’è sorta l’immagine del “país de Abril, dez anos antes da revolução”, Alegre risponde semplicemente: «Não sei explicá-lo». A quella se ritenga che la poesia talora anticipi i tempi, questa la sua risposta: «Antecipa os sinais do tempo. Como disse um dia, a poesia não faz revoluções, mas não há revolução sem uma poética da revolução, não há mudança sem uma poética da mudança. E já vimos isso em muitos países submetidos a várias formas de opressão, em que a poesia e as canções antecipam a libertação. Foi isso que aconteceu aqui, em Portugal».

Con le parole e i versi di Manuel Alegre -che per l’insieme della sua opera ha ricevuto, tra le altre riconoscenze, il premio Pessoa nel 1999- il diario portoghese si unisce idealmente alle celebrazioni del 25 aprile, sempre vive e sentite nel Paese che attraverso lo studio della sua lingua, della sua storia e della sua letteratura ha ispirato la nascita di questo stesso Blog.

venerdì 8 aprile 2016

Cinema Brasile: in “Antes o tempo não acabava” la storia di un giovane indio diviso fra tradizioni e città

Sérgio Andrade di Manaus e Fábio Baldo di São Paulo coregisti, protagonista Anderson Tikuna dell’omonima tribù


Sérgio Andrade, Anderson Tikuna, Fábio Baldo

Avere 13 anni e abitare nei pressi del celebre Teatro dell’Opera di Manaus proprio mentre Werner Herzog gira Fitzcarraldo. Aggirarsi sul set assieme agli amichetti e trovarsi presto addosso degli abiti eleganti, tipo smoking, per assistere alla scena dell’opera come comparse. Basterebbe questo accenno alla biografia di Sérgio Andrade per spiegare com’è nata la sua vocazione di regista. E ancora: vedere da vicino grandi attori quali Klaus Kinski e Claudia Cardinale, vivere quei momenti magici ed entrare in contatto, più specificamente, con la cinematografia tedesca.

Queste le premesse che hanno portato il regista brasiliano a realizzare, a un certo punto della sua carriera, un film in coproduzione Brasile/Germania con cui approdare addirittura all’ultimo Festival di Berlino. Si tratta di Antes o tempo não acabava (Time was endless), lungometraggio invitato anche al Festival Rencontres Cinémas d’Amérique Latine del marzo scorso e di cui si è parlato parecchio per la peculiarità dei temi trattati. La vicenda narrata ha colpito pure l’animo cinefilo del diario portoghese che desidera condividerla.

Andiamo per ordine. Innanzitutto Sérgio Andrade è nato nel 1967, cresciuto e tuttora residente a Manaus, nel cuore dell’Amazzonia e fin da bambino si è sempre interessato alle tradizioni indigene contando tra gli amici molti “nativi”. Ciò nonostante lui non sia indigeno, ma per metà portoghese e per metà arabo. Nemmeno il suo co-regista vanta origini indigene: Fábio Baldo, suo ex montatore e tecnico del suono con cui aveva già realizzato A Floresta de Jonathas, ha infatti provenienza italiana. È nato nel 1983 a São Paulo dove risiede.

Il protagonista Anderson Tikuna
Dal titolo stesso del film trapelano i suoi contenuti. Antes o tempo não acabava ovvero “prima (della modernità) il tempo era infinito” è la storia di Anderson, indigeno che si trasferisce a soli vent’anni dalla giungla in città, in cerca di lavoro e nuove opportunità. Il quartiere in cui va a vivere è il bairro Cidade de Deus, periferia nord di Manhaus dove si concentrano molte comunità di indios, tanto da creare una sorta di zona di transizione tra il mondo da cui provengono e quello in cui ora abitano. Tutta la vicenda si sviluppa sul perpetuo confronto tra le tradizioni dei villaggi, fitte di riti iniziatici sciamanici e la spinta verso la modernità urbana, con ritmi e abitudini finora sconosciuti. 

Anderson - che prende il nome dallo stesso protagonista, l’attore indio Anderson Tikuna - si accorge ben presto di quanto sia difficile vivere quella vita da bianco che tanto desidera, se dalle sue radici provengono indelebili richiami. Nel continuo oscillare tra il prima e l’ora, Anderson scopre sulla sua stessa pelle che questi due mondi faticano a coesistere, ma gli è impossibile scegliere non volendo rinunciare a nessuno dei due. Gli effetti, a tratti drammatici di questa divisione, rappresentano il nucleo centrale della trama. Va da sé che svelarli toglierebbe la sorpresa al potenziale spettatore.

Una curiosità: Sérgio Andrade ha dichiarato alla stampa di aver scritto la sceneggiatura del film proprio pensando all’attore che già aveva scritturato per piccole parti in un corto (Waterfall) e nel lungometraggio A Floresta de Jonathas, ma ha precisato che la storia non coincide con la biografia di Tikuna, appartenente all’omonima tribù. Oltre al protagonista Anderson, le tribù indigene dell’Amazzonia sono il cuore pulsante del film, recitato in ben quattro lingue (Tikuna, Sateré Mawé, Neenguetu, Tariano) tante quante sono le etnie rappresentate. Altra curiosità: per via delle differenti lingue -comprensibili solo tra nativi- in Brasile questo risulta un film straniero, da distribuire sottotitolato. Vicenda umana a parte, di grande effetto pure le musiche e le scenografie naturali, girate alternativamente nell’interno dell’Amazzonia e nella città di Manaus.

Per chiudere, l’immancabile auspicio di veder approdare anche in Italia l’affascinante lavoro dei due registi brasiliani. Nel frattempo, accontentiamoci del trailer.