Se
siete tra quelli che, tra una corsa e l’altra a caccia degli ultimi “pensierini”, su strade intasate e negozi affollati, avete bisogno di qualche momento in compagnia della sola voce di un buon libro, gustatevi
la lettura del racconto – dal sapore squisitamente natalizio, ovvio – “Per la
gola si prende chi fugge dal nostro cuore” della scrittrice Alice Vieira.
Il brano proposto, che pubblicheremo in tre momenti, è tratto
da “Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita”, raccolta di racconti edita in
Italia dalla casa editrice Urogallo: sei autrici portoghesi si sono prestate
alla stesura di un breve racconto dove regna un unico, golosissimo
protagonista, il cioccolato. Nota di colore è la ricetta che accompagna la fine di ciascun
racconto.
A tutti voi buona lettura e, ovviamente, Buone Feste!
"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore"
di
Alice Vieira
(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)
Racconto tratto da
"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"
Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel
Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro
Edizioni dell'Urogallo, 2013
“Avevo
già sbattuto il burro con lo zucchero, avevo già rotto le uova, separando la
chiara da una parte e il tuorlo dall’altra, avevo già aggiunto i tuorli al composto,
uno ad uno, lentamente, molto lentamente, ma senza mai fermarmi, proprio come
faceva sempre mia madre. Stava andando tutto per il verso giusto e io pensavo
perfino che se mia madre mi avesse potuto vedere sarebbe stata finalmente fiera
di me, anche se non assomigliavo a Audrey Hepburn e anche se non avevo rotto le
uova come lei insegnava, non avevo ancora così tanto coraggio, che cosa avrei
fatto se mi si fossero schiacciate tra le dita?
Era
da quando mi ero alzata che la voce di mia madre mi seguiva in ogni angolo
della casa, quella voce autoritaria, terribile poiché sempre celata dietro una
pacatezza e un affaticamento solo apparenti. Era parecchio che non mi veniva in
mente, lo ammetto. Non sempre la vita ci conduce in quel rifugio sicuro dove il
ricordo di chi ci ha lasciato ci fodera l’anima difendendola da ogni pericolo.
Ma durante tutta quella settimana, senza che ci fosse un vero motivo, la sua
voce mi seguiva da mattina a sera sussurrando detti di una volta e
confondendosi con l’acciottolio delle stoviglie che prendevo dalla credenza,
con il rumore dello sportello del frigorifero che aprivo e chiudevo in
continuazione, con i miei passi per la cucina, con la suoneria degli sms di
Luís, con la voce di Dora che mi metteva in guardia dal peggio.
Avevo
anche già mescolato il cacao con il latte tiepido, avevo già versato il tutto
dentro alla ciotola bianca a fiori azzurri e mescolavo, mescolavo e la cucina
smetteva finalmente di odorare solo di aglio e cipolla, cominciando a profumare
appena appena di torte, di Vigilia di Natale, di Villa Vittoria. Buttai, poi,
un occhio alla ricetta con la calligrafia molto decisa di mia madre,
dall’inchiostro però ormai sbiadito:
«Aggiungere
poco alla volta la farina setacciata e le chiare montate a neve alternando».
E
fu in quel momento che mi accorsi di non avere ancora montato le chiare a neve.
Odio
montare le chiare. Faccio di tutto pur di non dover montare le chiare. Ma ormai
era troppo tardi. Lei non avrebbe tardato ad arrivare e, per di più, quella era
la ricetta che avevo dato a Dora da pubblicare sulla rivista. “La torta del
papà” era l’unico rimedio possibile contro le disgrazie che, secondo lei,
sarebbero venute a bussare alla mia porta.
Afferrai
la frusta e mi misi a sbattere quella schifezza forsennatamente, come se stesse
per arrivare mio padre e la torta non fosse ancora in tavola, come se Laura mi
stesse spiando dall’altro lato della strada, come se fosse l’ultima cosa che
avrei fatto in vita mia. Non sentivo quasi più il braccio destro, perciò provai
a prendere la frusta con la mano sinistra, ma non riesco a fare nulla con la
sinistra quindi tornai a riprenderla con la destra, mi faceva male tutto e quel
miscuglio continuava ad essere liquido, giallognolo, senza nessuna traccia di
chiare montate, o mio Dio, ci saranno sicuramente delle preghiere da dire in questi
casi per riuscire a fare queste cose, come quelle preghiere che si recitano nei
paesini per fare lievitare il pane.
Diedi
ancora una volta un’occhiata preoccupata alla ricetta ma non potevo fare nulla
senza le chiare montate (“con forza”, aveva annotato mia madre a margine della
pagina), anche perché era l’unica cosa che mancava da fare, l’ultimo passo
prima di infornare il tutto. Dopodiché tutto sarebbe diventato più semplice.
Era da più di un quarto d’ora che sbattevo le tre chiare che richiedeva la
ricetta e, all’improvviso, strillai:
«Mi
sono dimenticata il pizzico di sale!»
Mi
sentii risollevata. Ovvio che le chiare non si montavano: mi ero dimenticata di
metterci quel pizzico di sale che era indispensabile.
«Come
dice il vecchio detto: la chiara senza il sale, schiuma non fa e nulla vale».
Non
riuscivo a togliermi dalla testa la voce di mia madre.
Ma
anche con il pizzico di sale le chiare non si montavano, restavano liquide,
giallognole, stomachevoli. Avevo schizzi di chiare sul grembiule, sulle dita e
nei capelli.
«È
meglio se ci rinunci, mia cara. Così non arriverai da nessuna parte».
Non
era di certo la voce di mia madre. Sollevai il capo, che per poco non avevo
messo dentro al liquido, e me la ritrovai di fronte.
«Da
te alle cinque e mezza».
Mi
aveva assicurato Luís nell’ultimo sms.
Avevo
calcolato tutto perché la torta fosse pronta al suo arrivo o, quanto meno, che
stesse per uscire dal forno, cotta a puntino, bella calda, così che lei potesse
ben vedere che si trattava di un’opera d’arte creata dalle mie mani e non dalle
mani della vicina o del pasticcere qui all’angolo.
Non
doveva arrivare in quel momento. Non doveva proprio. Ma era lì. Mi osservava,
con le sue mèches giallo paglierino che le scivolavano sul viso, diffondendo l’ultimo
profumo di Cacharel che si mescolava con l’odore di aglio e cipolla tipico
della mia cucina e, adesso, anche con questo leggero profumo di cioccolato e
zucchero.
Guardava
verso di me e ripeteva:
«Così
non arriverai da nessuna parte…»
Io
continuavo a sbattere le chiare, con più vigore ad ogni movimento e più in
fretta; le chiare erano sempre uguali e lei se ne stava ferma impalata sulla
soglia della cucina guardando fisso le mie mani e la frusta.
Improvvisamente
la sentii dire:
«È
il sangue».
Mi
fermai e mi misi a guardarla.
Senza
nemmeno guardarmi ripeteva:
«È
il sangue… il sangue…»
Ora
alla voce di mia madre si univa a quella di Dora che, a proposito di quel
giorno, mi aveva detto:
«Attenzione,
il male può assumere il colore del sangue…»
Che
assurdità! Era sicuramente colpa del caldo che mi stava dando alla testa. Il
caldo sì che cominciava a darmi alla testa, solo le chiare non cominciavano a
montarsi. Ingiustizie della vita.
E
poi ecco la voce di Luís, ancora intento a chiudere la porta:
«Alla
fine siamo arrivati prima! Sono uscito dall’ufficio e sono andato subito a
prenderla».
Non
so neppure dove sono riuscita a trovare la voce per rispondergli:
«Andate
in soggiorno. Là starete più comodi».
Era
come se non esistesse. Come se non fosse lì davanti a me. Dove in realtà non
sarebbe dovuta stare. Sarebbe dovuta essere in casa sua, seduta in salotto, a
trovare amici su Facebook.
«Natália
ti ha chiesto l’amicizia, suggerisci amici a Natália».
Oppure
a ricamare i tappeti tipici di Arraiolos.
«Due
punti in avanti e un punto indietro».
O
a fare le parole crociate.
«Fiume
svizzero con tre lettere, simbolo chimico del praseodimio, pesce della famiglia
degli scombridi, antica città della Caldea».
Ma
dove caspita sarà poi la Caldea, chissà se esiste ancora, i paesi adesso
spuntano e spariscono alla velocità della luce, ma comunque era questo che
avrebbe dovuto fare ora, nella quiete di casa sua, mentre aspettava che
arrivassero le cinque.
«Fa
molto caldo in questa cucina…», dissi, forse così la convincevo a lasciarmi in
pace.
Magari
la mia cucina fosse grande come quella di Villa Vittoria… la mia cucina, però,
era un buco, grande praticamente quanto il mio ufficio in redazione, ci stavamo
a malapena tutti, cioè i fornelli, il frigorifero, il microonde e io.
La
cucina dove Audrey Hepburn rompeva le uova con una sola mano sembrava un
laboratorio.
Mia
madre cercò anche di insegnarmi:
«Guarda
come fa lei, è facile: metti l’uovo ben al centro della mano, sposta la mano
sopra alla ciotola e poi basta solamente un tocco leggero col pollice ed è
fatta».
Mia
madre avrà visto quel film più di cento volte. Audrey Hepburn, che nel film si
chiamava Sabrina, tornava da una scuola di cucina di Parigi e sposava Humphrey
Bogart, che faceva la parte di Linus. Penso che fu dopo aver visto tutto quanto
il film più volte che la sentii dire per la prima volta:
«Per
la gola si prende chi fugge dal nostro cuore».
«In
sala fa molto più fresco…», borbottai.
Lei
continuava a guardarmi e io continuavo a pensare solo ad Audrey Hepburn e a mia
madre, chiusa in casa per dieci anni, tra film in bianco e nero, detti popolari
e l’immancabile ricettario O livro de Pantagruel, dalle pagine appiccicose per
il tanto uso che ne faceva, per la tanta farina che vi era finita sopra, per le
tante chiare d’uovo che vi aveva versato, per le tante macchie d’olio e di
burro e soprattutto di cioccolato, l’arma della sua vendetta finale.
Lei
sorrideva, con quel sorriso forzato di chi di sorridere non aveva nessuna
voglia, fissando le mie mani strette disperatamente intorno alla frusta, mentre
io sentivo soltanto la voce di mia madre che echeggiava in lontananza da Villa
Vittoria:
«Impara
a rompere le uova come si deve, impara guardando Audrey Hepburn, almeno questo»
[…]”.
Nessun commento:
Posta un commento
Lascia un commento