lunedì 23 dicembre 2013

"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore", un racconto che ha il sapore del Natale

Se siete tra quelli che, tra una corsa e l’altra a caccia degli ultimi “pensierini”, su strade intasate e negozi affollati, avete bisogno di qualche momento in compagnia della sola voce di un buon libro, gustatevi la lettura del racconto – dal sapore squisitamente natalizio, ovvio – “Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore” della scrittrice Alice Vieira.
Il brano proposto, che pubblicheremo in tre momenti, è tratto da “Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita”, raccolta di racconti edita in Italia dalla casa editrice Urogallo: sei autrici portoghesi si sono prestate alla stesura di un breve racconto dove regna un unico, golosissimo protagonista, il cioccolato. Nota di colore è la ricetta che accompagna la fine di ciascun racconto.
A tutti voi buona lettura e, ovviamente, Buone Feste!


    

     "Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore"

di 
Alice Vieira

(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)

Racconto tratto da 

"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"

Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro

Edizioni dell'Urogallo, 2013





“Avevo già sbattuto il burro con lo zucchero, avevo già rotto le uova, separando la chiara da una parte e il tuorlo dall’altra, avevo già aggiunto i tuorli al composto, uno ad uno, lentamente, molto lentamente, ma senza mai fermarmi, proprio come faceva sempre mia madre. Stava andando tutto per il verso giusto e io pensavo perfino che se mia madre mi avesse potuto vedere sarebbe stata finalmente fiera di me, anche se non assomigliavo a Audrey Hepburn e anche se non avevo rotto le uova come lei insegnava, non avevo ancora così tanto coraggio, che cosa avrei fatto se mi si fossero schiacciate tra le dita?
Era da quando mi ero alzata che la voce di mia madre mi seguiva in ogni angolo della casa, quella voce autoritaria, terribile poiché sempre celata dietro una pacatezza e un affaticamento solo apparenti. Era parecchio che non mi veniva in mente, lo ammetto. Non sempre la vita ci conduce in quel rifugio sicuro dove il ricordo di chi ci ha lasciato ci fodera l’anima difendendola da ogni pericolo. Ma durante tutta quella settimana, senza che ci fosse un vero motivo, la sua voce mi seguiva da mattina a sera sussurrando detti di una volta e confondendosi con l’acciottolio delle stoviglie che prendevo dalla credenza, con il rumore dello sportello del frigorifero che aprivo e chiudevo in continuazione, con i miei passi per la cucina, con la suoneria degli sms di Luís, con la voce di Dora che mi metteva in guardia dal peggio.
Avevo anche già mescolato il cacao con il latte tiepido, avevo già versato il tutto dentro alla ciotola bianca a fiori azzurri e mescolavo, mescolavo e la cucina smetteva finalmente di odorare solo di aglio e cipolla, cominciando a profumare appena appena di torte, di Vigilia di Natale, di Villa Vittoria. Buttai, poi, un occhio alla ricetta con la calligrafia molto decisa di mia madre, dall’inchiostro però ormai sbiadito:
«Aggiungere poco alla volta la farina setacciata e le chiare montate a neve alternando».
E fu in quel momento che mi accorsi di non avere ancora montato le chiare a neve.
Odio montare le chiare. Faccio di tutto pur di non dover montare le chiare. Ma ormai era troppo tardi. Lei non avrebbe tardato ad arrivare e, per di più, quella era la ricetta che avevo dato a Dora da pubblicare sulla rivista. “La torta del papà” era l’unico rimedio possibile contro le disgrazie che, secondo lei, sarebbero venute a bussare alla mia porta.
Afferrai la frusta e mi misi a sbattere quella schifezza forsennatamente, come se stesse per arrivare mio padre e la torta non fosse ancora in tavola, come se Laura mi stesse spiando dall’altro lato della strada, come se fosse l’ultima cosa che avrei fatto in vita mia. Non sentivo quasi più il braccio destro, perciò provai a prendere la frusta con la mano sinistra, ma non riesco a fare nulla con la sinistra quindi tornai a riprenderla con la destra, mi faceva male tutto e quel miscuglio continuava ad essere liquido, giallognolo, senza nessuna traccia di chiare montate, o mio Dio, ci saranno sicuramente delle preghiere da dire in questi casi per riuscire a fare queste cose, come quelle preghiere che si recitano nei paesini per fare lievitare il pane.
Diedi ancora una volta un’occhiata preoccupata alla ricetta ma non potevo fare nulla senza le chiare montate (“con forza”, aveva annotato mia madre a margine della pagina), anche perché era l’unica cosa che mancava da fare, l’ultimo passo prima di infornare il tutto. Dopodiché tutto sarebbe diventato più semplice. Era da più di un quarto d’ora che sbattevo le tre chiare che richiedeva la ricetta e, all’improvviso, strillai:
«Mi sono dimenticata il pizzico di sale!»
Mi sentii risollevata. Ovvio che le chiare non si montavano: mi ero dimenticata di metterci quel pizzico di sale che era indispensabile.
«Come dice il vecchio detto: la chiara senza il sale, schiuma non fa e nulla vale».
Non riuscivo a togliermi dalla testa la voce di mia madre.
Ma anche con il pizzico di sale le chiare non si montavano, restavano liquide, giallognole, stomachevoli. Avevo schizzi di chiare sul grembiule, sulle dita e nei capelli.
«È meglio se ci rinunci, mia cara. Così non arriverai da nessuna parte».
Non era di certo la voce di mia madre. Sollevai il capo, che per poco non avevo messo dentro al liquido, e me la ritrovai di fronte.
«Da te alle cinque e mezza».
Mi aveva assicurato Luís nell’ultimo sms.
Avevo calcolato tutto perché la torta fosse pronta al suo arrivo o, quanto meno, che stesse per uscire dal forno, cotta a puntino, bella calda, così che lei potesse ben vedere che si trattava di un’opera d’arte creata dalle mie mani e non dalle mani della vicina o del pasticcere qui all’angolo.
Non doveva arrivare in quel momento. Non doveva proprio. Ma era lì. Mi osservava, con le sue mèches giallo paglierino che le scivolavano sul viso, diffondendo l’ultimo profumo di Cacharel che si mescolava con l’odore di aglio e cipolla tipico della mia cucina e, adesso, anche con questo leggero profumo di cioccolato e zucchero.
Guardava verso di me e ripeteva:
«Così non arriverai da nessuna parte…»
Io continuavo a sbattere le chiare, con più vigore ad ogni movimento e più in fretta; le chiare erano sempre uguali e lei se ne stava ferma impalata sulla soglia della cucina guardando fisso le mie mani e la frusta.
Improvvisamente la sentii dire:
«È il sangue».
Mi fermai e mi misi a guardarla.
Senza nemmeno guardarmi ripeteva:
«È il sangue… il sangue…»
Ora alla voce di mia madre si univa a quella di Dora che, a proposito di quel giorno, mi aveva detto:
«Attenzione, il male può assumere il colore del sangue…»
Che assurdità! Era sicuramente colpa del caldo che mi stava dando alla testa. Il caldo sì che cominciava a darmi alla testa, solo le chiare non cominciavano a montarsi. Ingiustizie della vita.
E poi ecco la voce di Luís, ancora intento a chiudere la porta:
«Alla fine siamo arrivati prima! Sono uscito dall’ufficio e sono andato subito a prenderla».
Non so neppure dove sono riuscita a trovare la voce per rispondergli:
«Andate in soggiorno. Là starete più comodi».
Era come se non esistesse. Come se non fosse lì davanti a me. Dove in realtà non sarebbe dovuta stare. Sarebbe dovuta essere in casa sua, seduta in salotto, a trovare amici su Facebook.
«Natália ti ha chiesto l’amicizia, suggerisci amici a Natália».
Oppure a ricamare i tappeti tipici di Arraiolos.
«Due punti in avanti e un punto indietro».
O a fare le parole crociate.
«Fiume svizzero con tre lettere, simbolo chimico del praseodimio, pesce della famiglia degli scombridi, antica città della Caldea».
Ma dove caspita sarà poi la Caldea, chissà se esiste ancora, i paesi adesso spuntano e spariscono alla velocità della luce, ma comunque era questo che avrebbe dovuto fare ora, nella quiete di casa sua, mentre aspettava che arrivassero le cinque.
«Fa molto caldo in questa cucina…», dissi, forse così la convincevo a lasciarmi in pace.
Magari la mia cucina fosse grande come quella di Villa Vittoria… la mia cucina, però, era un buco, grande praticamente quanto il mio ufficio in redazione, ci stavamo a malapena tutti, cioè i fornelli, il frigorifero, il microonde e io.
La cucina dove Audrey Hepburn rompeva le uova con una sola mano sembrava un laboratorio.
Mia madre cercò anche di insegnarmi:
«Guarda come fa lei, è facile: metti l’uovo ben al centro della mano, sposta la mano sopra alla ciotola e poi basta solamente un tocco leggero col pollice ed è fatta».
Mia madre avrà visto quel film più di cento volte. Audrey Hepburn, che nel film si chiamava Sabrina, tornava da una scuola di cucina di Parigi e sposava Humphrey Bogart, che faceva la parte di Linus. Penso che fu dopo aver visto tutto quanto il film più volte che la sentii dire per la prima volta:
«Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore».
«In sala fa molto più fresco…», borbottai.
Lei continuava a guardarmi e io continuavo a pensare solo ad Audrey Hepburn e a mia madre, chiusa in casa per dieci anni, tra film in bianco e nero, detti popolari e l’immancabile ricettario O livro de Pantagruel, dalle pagine appiccicose per il tanto uso che ne faceva, per la tanta farina che vi era finita sopra, per le tante chiare d’uovo che vi aveva versato, per le tante macchie d’olio e di burro e soprattutto di cioccolato, l’arma della sua vendetta finale.
Lei sorrideva, con quel sorriso forzato di chi di sorridere non aveva nessuna voglia, fissando le mie mani strette disperatamente intorno alla frusta, mentre io sentivo soltanto la voce di mia madre che echeggiava in lontananza da Villa Vittoria:
«Impara a rompere le uova come si deve, impara guardando Audrey Hepburn, almeno questo» […]”.




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