venerdì 27 dicembre 2013

"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" (terza parte)


   

      "Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore" 

di 
Alice Vieira

(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)

Racconto tratto da 

"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"

Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro


Edizioni dell'Urogallo, 2013


“[…] Fu quella la settimana in cui mi veniva in mente di continuo mia madre.
E la nostra vita a Villa Vittoria.
Di mio padre ho pochi ricordi. O meglio, mi ricordo solo di lui seduto al tavolo della sala da pranzo e di mia madre che lo serviva.
Le domestiche andavano e venivano senza dire una parola, di molte di loro non ricordo né il nome né la voce. Facevano il bucato e lavavano le stoviglie, davano lo straccio e pulivano le pareti, riordinavano le stanze, cambiavano l’acqua ai fiori, lucidavano gli specchi, sbrinavano il frigorifero, sgrassavano il forno, spolveravano ogni angolo della casa affinché non ci invadessero gli insetti, ma la cucina era il regno indiscusso di mia madre.
Tra sere passate a guardare film e giornate passate tra bolliti, umidi, brodetti, pancotti, pasta sfoglia, panzerotti, crostate, mousse e budini, trascorsero uno dopo l’altro tutti i giorni dei dieci anni in cui visse là.
Non l’ho mai sentita lamentarsi, fino al giorno in cui capì che “la donna della terra” in questione era Laura… della quale non si liberò mai. Chiuse le finestre e cominciò ad inondare la casa col profumo inconfondibile delle pietanze che si cuocevano sui fornelli. Osservava mio padre in silenzio, mentre sulle sue mani comparivano via via rughe e calli per il tanto impastare, tagliare frutta, ungere teglie, sminuzzare cioccolato, montare chiare.
A volte rimanevo incantata dalla velocità con cui le sue mani si muovevano e lei guardandomi mi sorrideva, bisbigliando:
«Come dice il vecchio detto: “per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore”».
Mia madre trascorse la sua vita tra film, pentole, padelle, fornelli… e vecchi detti. Che non avevo mai sentito dire da nessuna parte se non da lei.
Mio padre usciva presto per andare in ufficio e tornava sempre a casa per pranzo. Fino al giorno in cui morì, mio padre non rinunciò mai ad un pranzo o ad una cena a casa. E non ricordo nemmeno, finché rimase al mondo, neanche solo una volta in cui mia madre non gli abbia preparato un pasto che non fosse raffinato: zuppa, pesce, carne, dolce, frutta e caffè. E alla fine, dopo tutto questo ben di Dio, era tradizione servire in tavola la torta al cioccolato che abbiamo sempre chiamato “la torta del papà” e che mia madre faceva un giorno sì e un giorno no. Per mio padre la torta era come una droga. Dopo pranzo e dopo cena, ecco che arrivavano le fette di torta ricoperte di cioccolato, col loro ripieno di panna, mandorle e chantilly.
Mio padre mangiava in silenzio. E in silenzio mia madre lo serviva, osservandolo e sorridendogli sempre. Ma con un sorriso strano, che ci si insinuava nel cuore consumandolo poco a poco. Lentamente ma senza fermarsi un attimo.

«Non te l’ha mai insegnato tua madre?»
La guardai senza capire.
«Di… delle chiare che non si montano, della crema che fa molti grumi, della maionese che impazzisce, del cioccolato che non si scioglie a bagnomaria. Quando abbiamo… sì, insomma, mi capisci, quando abbiamo i nostri giorni, queste cose succedono sempre. Sempre. Nessuno sa dire il perché. Mia nonna diceva che era la croce delle donne, perché erano impure. Era un pozzo di saggezza quella vecchietta! Ma io non credo a queste sciocchezze. Però succede davvero. Sarà il ciclo, va’ a sapere…»
No, mia madre non mi aveva mai detto nulla del genere, mia madre era vissuta per ingozzare mio padre di cibo, quel poco che sapevo della vita l’avevo imparato dai compagni di scuola e dalle domestiche.
Quella mattina in cui mi svegliai e mi vidi insanguinata, ricordo di essere corsa sotto shock da Lurdes, di averle gettato le braccia al collo urlando: «Ho la tubercolosi! Ho la tubercolosi! Sto per morire!». Lurdes accorse dal lavatoio asciugandosi le mani nel grembiule e tenendosi l’indice premuto sulle labbra: «Shh! Basta! Altrimenti sua madre la sentirà!».
Mi portò nel bagno minuscolo dei domestici, si prese cura di me: mi calmò e mi spiegò che non sarei morta ma che quello che mi era successo significava che da quel momento avrei potuto avere dei figli.
«Figli? Avrò dei figli?»
Presi paura al pensiero di stringere da lì a pochi giorni un bebè tra le braccia. Mi chiesi com’è che nascevano i bambini, come si accudiva un bebè, cos’è che avrei dovuto dargli da mangiare, se lo si poteva saziare solo con la torta al cioccolato di mio padre, come l’avrei dovuto vestire e come avrei fatto a portarlo con me a scuola visto che ci lasciavano portare i giocattoli solo al mercoledì.
«Certo, ne avrà molti, ma mica adesso!», disse ridendo Lurdes.
Quel pomeriggio Lurdes raccontò tutto a mia madre, la quale però non entrò mai in argomento con me.
Ma nella settimana in cui mi venivano le mestruazioni, mia madre tagliava sempre una fetta di torta, fatta in genere unicamente per mio padre, di modo che io la mangiassi a scuola a merenda, dicendo:
«Come dice il vecchio detto: “il cioccolato venne in mente per alleviare un corpo dolente”».
Ancora oggi non so di che cosa sia morto mio padre. Un attimo prima masticava tranquillo, di gusto, deliziato dagli ultimi bocconi della fetta di torta, con il cioccolato che gli si scioglieva in mano, pronto a piantare la forchetta nell’ultimo pezzo che rimaneva per poi leccarsi le dita. Un attimo dopo era accasciato sul tavolo, con il capo riverso nel piatto, gli occhi vitrei riflessi nella forchetta, privo di sensi.
Mia madre disse:
«Chiamate un’ambulanza».
Portò via gli avanzi del pranzo mormorando:
«Come dice il vecchio detto: “vita finita, piazza pulita”».
Il commento del medico che attestò il decesso era tutto un superlativo: colesterolo elevatissimo, pressione altissima, arterie occlusissime.
Dopo il funerale, a cui mia madre non andò per tener fede al suo voto di clausura, non si mangiò mai più in sala da pranzo. Svuotò frigorifero e dispensa con quell’aria a metà strada tra compiacimento e afflizione che viene solo quando si ha la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere o perché raggelati da una vendetta definitiva… da quel momento in poi abbiamo cominciato a mangiare in cucina.
Una mattina entrai in camera sua ma non la trovai. Le domestiche non l’avevano vista né sentita camminare per la casa. La polizia, senza grande impegno, fece delle indagini sulla sua scomparsa. Ma dieci anni erano tanto tempo e ormai nessuno si ricordava di aver mai visto la sua faccia. Parecchio tempo dopo, una cartolina con sopra il Vulcano Capelinhos e con una firma illeggibile di qualcuno che diceva di essere mio cugino alla lontana mi avvisava della sua morte.
Presi O Livro de Pantagruel e i film di Audrey Hepburn e venni a Lisbona, mentre Laura faceva il suo ingresso a Villa Vittoria crogiolandosi nel suo dolore di eterna vedova.
*
«Passamelo, altrimenti non usciamo più da qui dentro».
Senza dire nulla le passo la ciotola.
«Forse Sofia sì che era un’ottima cuoca».
Sento un brivido.
«Ma chi è questa Sofia?»
Luís non mi ha mai parlato di nessuna Sofia. Nemmeno quel pomeriggio al Colombo. E io non ci avevo più pensato. Forse non c’era nessuna Sofia e lei l’aveva detto solo per provocarmi. La guardo muovere velocemente la frusta alcune volte, la guardo girare sotto-sopra la ciotola con la destrezza di un giocoliere e io, da sciocca:
«Stia attenta, badi che non cada che poi si sporca il vestito!»
Come se mi importasse veramente qualcosa se si sporcava il vestito, sicuramente firmato, ovvio, e lei:
«Non cade niente! Sono montate a neve alla perfezione, non cade neanche una goccia!»
Mi ripassa la ciotola ed esce dalla cucina con l’aspetto trionfante di chi ha appena annientato il nemico sul suo stesso terreno di combattimento.
Ungo la teglia, la cospargo di farina, vi verso infine tutto il composto. E il forno lentamente farà il resto. Mi sciacquo le mani, mi tolgo il grembiule, mi sistemo i capelli e li raggiungo in soggiorno.
Sono entrambi presi da una conversazione molto accesa sulla salute che non interrompono al mio arrivo.
«Anche tu, mamma, devi aver cura di te, devi stare attenta al tuo stile di vita e a quel che mangi. Guarda che non sei più una ragazzina e poi questi problemi di pressione possono diventare guai».
«Ma che m’importa! È il farmacista che mi racconta queste cose per spaventarmi. Io, però, non passo la mia vita a pensare alle malattie! Ho troppe cose da fare e non posso perder tempo dietro a queste preoccupazioni. E poi non c’è nulla di meglio che mettere qualcosa di dolce sotto ai denti».
Improvvisamente mi rendo conto di aver cominciato a parlare:
«Tutto ciò che rende la vita piacevole appaga il Signore e noi!»
E lei ridendo: «Finalmente qualcuno che mi capisce!». E voltandosi verso Luís esclama: «Adesso stiamo a vedere se la cambi!»
Si appoggia allo schienale e, scongiurate le disgrazie che aveva previsto Dora, restiamo lì insieme, lei a rivelarmi i segreti del figlio e io a promettere di farle torte, mousse, semifreddi e bavaresi affinché né il suo palato né la sua vita siano mai più amari, mentre fuori dalle finestre cala la sera, il mondo appare sempre più lontano e tutto profuma di Cacharel e cioccolato.

FINE

Torta del papà

Ingredienti:
125 g di burro
180 g di zucchero
3 uova
½ tazza di latte tiepido
80 g di cacao
225 g di farina
2 tazze di panna fredda
60 g di zucchero a velo
100 g di mandorle sgusciate
scaglie di cioccolato
crema chantilly per guarnire


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