"Per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore"
di
Alice Vieira
(traduzione dal portoghese di Niccolò Morselli)
Racconto tratto da
"Cioccolato. Sei storie da leccarsi le dita"
Alice Vieira, Catarina Fonseca, Isabel Zambujal, Leonor Xavier, Maria do Rosário Pedreira e Rita Ferro
Edizioni dell'Urogallo, 2013
“[…]
Fu quella la settimana in cui mi veniva in mente di continuo mia madre.
E
la nostra vita a Villa Vittoria.
Di
mio padre ho pochi ricordi. O meglio, mi ricordo solo di lui seduto al tavolo
della sala da pranzo e di mia madre che lo serviva.
Le
domestiche andavano e venivano senza dire una parola, di molte di loro non
ricordo né il nome né la voce. Facevano il bucato e lavavano le stoviglie,
davano lo straccio e pulivano le pareti, riordinavano le stanze, cambiavano
l’acqua ai fiori, lucidavano gli specchi, sbrinavano il frigorifero,
sgrassavano il forno, spolveravano ogni angolo della casa affinché non ci
invadessero gli insetti, ma la cucina era il regno indiscusso di mia madre.
Tra
sere passate a guardare film e giornate passate tra bolliti, umidi, brodetti,
pancotti, pasta sfoglia, panzerotti, crostate, mousse e budini, trascorsero uno
dopo l’altro tutti i giorni dei dieci anni in cui visse là.
Non
l’ho mai sentita lamentarsi, fino al giorno in cui capì che “la donna della
terra” in questione era Laura… della quale non si liberò mai. Chiuse le
finestre e cominciò ad inondare la casa col profumo inconfondibile delle
pietanze che si cuocevano sui fornelli. Osservava mio padre in silenzio, mentre
sulle sue mani comparivano via via rughe e calli per il tanto impastare,
tagliare frutta, ungere teglie, sminuzzare cioccolato, montare chiare.
A
volte rimanevo incantata dalla velocità con cui le sue mani si muovevano e lei
guardandomi mi sorrideva, bisbigliando:
«Come
dice il vecchio detto: “per la gola si prende chi fugge dal nostro cuore”».
Mia
madre trascorse la sua vita tra film, pentole, padelle, fornelli… e vecchi
detti. Che non avevo mai sentito dire da nessuna parte se non da lei.
Mio
padre usciva presto per andare in ufficio e tornava sempre a casa per pranzo.
Fino al giorno in cui morì, mio padre non rinunciò mai ad un pranzo o ad una
cena a casa. E non ricordo nemmeno, finché rimase al mondo, neanche solo una
volta in cui mia madre non gli abbia preparato un pasto che non fosse
raffinato: zuppa, pesce, carne, dolce, frutta e caffè. E alla fine, dopo tutto
questo ben di Dio, era tradizione servire in tavola la torta al cioccolato che
abbiamo sempre chiamato “la torta del papà” e che mia madre faceva un giorno sì
e un giorno no. Per mio padre la torta era come una droga. Dopo pranzo e dopo
cena, ecco che arrivavano le fette di torta ricoperte di cioccolato, col loro
ripieno di panna, mandorle e chantilly.
Mio
padre mangiava in silenzio. E in silenzio mia madre lo serviva, osservandolo e
sorridendogli sempre. Ma con un sorriso strano, che ci si insinuava nel cuore
consumandolo poco a poco. Lentamente ma senza fermarsi un attimo.
«Non
te l’ha mai insegnato tua madre?»
La
guardai senza capire.
«Di…
delle chiare che non si montano, della crema che fa molti grumi, della maionese
che impazzisce, del cioccolato che non si scioglie a bagnomaria. Quando
abbiamo… sì, insomma, mi capisci, quando abbiamo i nostri giorni, queste cose
succedono sempre. Sempre. Nessuno sa dire il perché. Mia nonna diceva che era
la croce delle donne, perché erano impure. Era un pozzo di saggezza quella
vecchietta! Ma io non credo a queste sciocchezze. Però succede davvero. Sarà il
ciclo, va’ a sapere…»
No,
mia madre non mi aveva mai detto nulla del genere, mia madre era vissuta per
ingozzare mio padre di cibo, quel poco che sapevo della vita l’avevo imparato
dai compagni di scuola e dalle domestiche.
Quella
mattina in cui mi svegliai e mi vidi insanguinata, ricordo di essere corsa
sotto shock da Lurdes, di averle gettato le braccia al collo urlando: «Ho la
tubercolosi! Ho la tubercolosi! Sto per morire!». Lurdes accorse dal lavatoio
asciugandosi le mani nel grembiule e tenendosi l’indice premuto sulle labbra:
«Shh! Basta! Altrimenti sua madre la sentirà!».
Mi
portò nel bagno minuscolo dei domestici, si prese cura di me: mi calmò e mi
spiegò che non sarei morta ma che quello che mi era successo significava che da
quel momento avrei potuto avere dei figli.
«Figli?
Avrò dei figli?»
Presi
paura al pensiero di stringere da lì a pochi giorni un bebè tra le braccia. Mi
chiesi com’è che nascevano i bambini, come si accudiva un bebè, cos’è che avrei
dovuto dargli da mangiare, se lo si poteva saziare solo con la torta al
cioccolato di mio padre, come l’avrei dovuto vestire e come avrei fatto a
portarlo con me a scuola visto che ci lasciavano portare i giocattoli solo al
mercoledì.
«Certo,
ne avrà molti, ma mica adesso!», disse ridendo Lurdes.
Quel
pomeriggio Lurdes raccontò tutto a mia madre, la quale però non entrò mai in
argomento con me.
Ma
nella settimana in cui mi venivano le mestruazioni, mia madre tagliava sempre
una fetta di torta, fatta in genere unicamente per mio padre, di modo che io la
mangiassi a scuola a merenda, dicendo:
«Come
dice il vecchio detto: “il cioccolato venne in mente per alleviare un corpo
dolente”».
Ancora
oggi non so di che cosa sia morto mio padre. Un attimo prima masticava
tranquillo, di gusto, deliziato dagli ultimi bocconi della fetta di torta, con
il cioccolato che gli si scioglieva in mano, pronto a piantare la forchetta
nell’ultimo pezzo che rimaneva per poi leccarsi le dita. Un attimo dopo era
accasciato sul tavolo, con il capo riverso nel piatto, gli occhi vitrei
riflessi nella forchetta, privo di sensi.
Mia
madre disse:
«Chiamate
un’ambulanza».
Portò
via gli avanzi del pranzo mormorando:
«Come
dice il vecchio detto: “vita finita, piazza pulita”».
Il
commento del medico che attestò il decesso era tutto un superlativo:
colesterolo elevatissimo, pressione altissima, arterie occlusissime.
Dopo
il funerale, a cui mia madre non andò per tener fede al suo voto di clausura,
non si mangiò mai più in sala da pranzo. Svuotò frigorifero e dispensa con quell’aria
a metà strada tra compiacimento e afflizione che viene solo quando si ha la
consapevolezza di aver fatto il proprio dovere o perché raggelati da una
vendetta definitiva… da quel momento in poi abbiamo cominciato a mangiare in
cucina.
Una
mattina entrai in camera sua ma non la trovai. Le domestiche non l’avevano
vista né sentita camminare per la casa. La polizia, senza grande impegno, fece
delle indagini sulla sua scomparsa. Ma dieci anni erano tanto tempo e ormai
nessuno si ricordava di aver mai visto la sua faccia. Parecchio tempo dopo, una
cartolina con sopra il Vulcano Capelinhos e con una firma illeggibile di
qualcuno che diceva di essere mio cugino alla lontana mi avvisava della sua
morte.
Presi
O Livro de Pantagruel e i film di Audrey Hepburn e venni a Lisbona, mentre
Laura faceva il suo ingresso a Villa Vittoria crogiolandosi nel suo dolore di
eterna vedova.
*
«Passamelo,
altrimenti non usciamo più da qui dentro».
Senza
dire nulla le passo la ciotola.
«Forse
Sofia sì che era un’ottima cuoca».
Sento
un brivido.
«Ma
chi è questa Sofia?»
Luís
non mi ha mai parlato di nessuna Sofia. Nemmeno quel pomeriggio al Colombo. E
io non ci avevo più pensato. Forse non c’era nessuna Sofia e lei l’aveva detto
solo per provocarmi. La guardo muovere velocemente la frusta alcune volte, la
guardo girare sotto-sopra la ciotola con la destrezza di un giocoliere e io, da
sciocca:
«Stia
attenta, badi che non cada che poi si sporca il vestito!»
Come
se mi importasse veramente qualcosa se si sporcava il vestito, sicuramente
firmato, ovvio, e lei:
«Non
cade niente! Sono montate a neve alla perfezione, non cade neanche una goccia!»
Mi
ripassa la ciotola ed esce dalla cucina con l’aspetto trionfante di chi ha
appena annientato il nemico sul suo stesso terreno di combattimento.
Ungo
la teglia, la cospargo di farina, vi verso infine tutto il composto. E il forno
lentamente farà il resto. Mi sciacquo le mani, mi tolgo il grembiule, mi
sistemo i capelli e li raggiungo in soggiorno.
Sono
entrambi presi da una conversazione molto accesa sulla salute che non
interrompono al mio arrivo.
«Anche
tu, mamma, devi aver cura di te, devi stare attenta al tuo stile di vita e a
quel che mangi. Guarda che non sei più una ragazzina e poi questi problemi di
pressione possono diventare guai».
«Ma
che m’importa! È il farmacista che mi racconta queste cose per spaventarmi. Io,
però, non passo la mia vita a pensare alle malattie! Ho troppe cose da fare e
non posso perder tempo dietro a queste preoccupazioni. E poi non c’è nulla di
meglio che mettere qualcosa di dolce sotto ai denti».
Improvvisamente
mi rendo conto di aver cominciato a parlare:
«Tutto
ciò che rende la vita piacevole appaga il Signore e noi!»
E
lei ridendo: «Finalmente qualcuno che mi capisce!». E voltandosi verso Luís
esclama: «Adesso stiamo a vedere se la cambi!»
Si
appoggia allo schienale e, scongiurate le disgrazie che aveva previsto Dora,
restiamo lì insieme, lei a rivelarmi i segreti del figlio e io a promettere di
farle torte, mousse, semifreddi e bavaresi affinché né il suo palato né la sua
vita siano mai più amari, mentre fuori dalle finestre cala la sera, il mondo
appare sempre più lontano e tutto profuma di Cacharel e cioccolato.
FINE
Torta
del papà
Ingredienti:
125
g di burro
180
g di zucchero
3
uova
½
tazza di latte tiepido
80
g di cacao
225
g di farina
2
tazze di panna fredda
60
g di zucchero a velo
100
g di mandorle sgusciate
scaglie
di cioccolato
crema
chantilly per guarnire
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