venerdì 11 marzo 2011

Hélder Macedo...in 6 domande

Martedì 8 marzo, al termine della conferenza Luís de Camões: o testemunho das Cartas, abbiamo avuto il piacere di intervistare lo scrittore Hélder Macedo.
Ecco qui il testo tradotto dell'intervista:
In un’intervista al programma “Câmara Clara”, lei ha affermato che il suo romanzo Da qualche parte in Africa è stato capito meglio in Brasile che in Portogallo. In che senso?
Sì, in Portogallo il libro ha causato molte perplessità. Quando è stato pubblicato, nel 1991, i portoghesi non avevano ancora superato il trauma della Guerra Coloniale e si trovavano in una fase di estrema confusione, in relazione al loro operato, alla storia, all’impero, alla colpevolezza dell’impero. Le esperienze traumatiche hanno bisogno di tempo per essere digerite: in Spagna, ad esempio, soltanto da pochi anni si sta diffondendo una letteratura sulla Guerra Civile. Anche qui in Italia, del resto, ci sono ancora delle divisioni profonde che risalgono al periodo del fascismo. Io sono nato in Africa, ho vissuto in Portogallo, sono stato all’estero per diversi anni, ho lottato al fianco dei compagni africani contro il loro stesso oppressore, il regime portoghese. Io ho anticipato di alcuni anni la percezione dell’ambivalenza del fenomeno imperiale, anche nel tentativo di capire la sua complessità. L’imperialismo è, ovviamente, negativo, ma, come ogni  fenomeno negativo, è stato in grado di generare delle cose positive. Questa è una prospettiva che il Brasile, in quanto nazione indipendente dal 1822, ha capito immediatamente, al contrario del Portogallo. I portoghesi non sapevano molto bene che cosa fare, non erano ancora pronti.
È significativo il fatto che questo libro sia stato pubblicato in Italia, negli Stati Uniti, in Germania, soltanto vent’anni dopo la sua pubblicazione in Portogallo. È un libro che ha anticipato i tempi. Vari critici, tra cui Margarida Calafate Ribeiro, pensano che questo sia il primo libro veramente postcoloniale, all’interno della letteratura portoghese. Da qualche parte in Africa ha rappresentato una prospettiva nuova, che i portoghesi non potevano ancora capire, mentre in Brasile lo hanno accolto con maggior naturalezza.

Quindi, secondo lei, è appropriato usare il termine “postcolonialismo”?
Sì, certo, perché il colonialismo è passato, ma il postcolonialismo è un fenomeno molto strano, molto complesso. Credo che nel romanzo venga ben rappresentato il colonialismo portoghese. In fondo il fenomeno coloniale ha creato accesso facile a ricchezze facili per chi godeva di privilegi, ha creato una élite. Il Portogallo era caratterizzato da una discrepanza, da un dislivello fra un’élite oligarchica, estremamente civilizzata, estremamente colta, piuttosto ricca, rispetto agli standard nazionali, e il resto del paese. Questa élite non aveva interesse a sviluppare il paese, a investire all’interno del paese. Questa è la differenza tra il colonialismo portoghese e, ad esempio, quello olandese. Il colonialismo olandese è stato tanto criminoso come qualsiasi altro, ma il paese si è sviluppato grazie alla presenza di una classe media. In Portogallo non è stato così: la ricchezza non filtrava a causa dell’élitismo. Di conseguenza, nel 1961, allo scoppiare della guerra coloniale, il Portogallo imperialista aveva tra le sue colonie l’Angola, ad esempio, caratterizzata da una ricchezza immensa, ma era un paese estremamente povero. In Portogallo, terra di importanti scrittori e pensatori illustri, circa il 60-70% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere. Pertanto, questa devastazione colonialista interessava il colonialismo stesso.

Lei si è definito un escritor descolonizado, uno scrittore “decolonizzato”. Che cosa significa?
Significa che non mi riconosco come colonizzato né da una parte né dall’altra. Sono, effettivamente, figlio, nipote e bisnipote di  governanti coloniali, ma il romanzo Da qualche parte in Africa è, allo stesso tempo, un dialogo con la mia tradizione nel tentativo di comprendere dalla prospettiva di chi non è più soggetto a questo potere. La questione non è colpevolizzarsi, ma capire. Il colonialismo, come il non-colonialismo, è anche una condizione mentale, oltre ad essere un esercizio di potere economico, politico, culturale. La capacità di dialogare è una forma di postcolonialismo.

Il suo ultimo romanzo, Natália,  fa un’incursione nell’universo femminile. Come è stato possibile scrivere dal punto di vista di una donna? Quali strategie ha utilizzato?
Le reazioni migliori sono venute proprio dalle donne. In Portogallo e in Brasile, in base a quanto si è scritto, il romanzo è stato giudicato positivamente dalle donne, mentre per la prima volta ho avuto una critica molto violenta da parte di un uomo, rimasto impressionato, scandalizzato.
Scandalizzato dalla sua scrittura?
Sì, ma anche dal personaggio. Per quanto riguarda la scrittura, invece, si sa che ogni romanziere inventa personaggi diversi da se stesso. Non è impossibile scrivere tutto un libro con la voce di un personaggio, questo significa che la prospettiva autoriale non coincide necessariamente con la prospettiva del personaggio. Attraverso le parole e le azioni del personaggio, si deve arrivare a capire ciò che l’autore pensa o non pensa.

Sempre riguardo al suo ultimo romanzo, ci sono dei progetti di traduzione in Italia?
Non so ancora, il libro è appena stato pubblicato in Brasile. Prima dell’estate uscirà la traduzione italiana del romanzo Sem nome (Senza nome), che sarà il mio terzo romanzo a essere pubblicato in Italia, dopo Pedro e Paula e Da qualche parte in Africa.

Come ha iniziato il suo lavoro di scrittore?
Prima di diventare professore sono stato un poeta, ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie a 21 anni. In Portogallo ho studiato diritto, ma per ragioni politiche ho dovuto lasciare il Portogallo. Successivamente, dopo vari lavori, ho deciso di tornare all’università per occuparmi di letteratura. Negli anni ‘60 ho iniziato a scrivere romanzi, che non potevano essere pubblicati in Portogallo a causa della censura. È stato durante un periodo di congedo sabbatico dall’università che ho iniziato a scrivere delle poesie, o almeno quelle che ritenevo essere delle poesie, e che invece diventarono Da qualche parte in Africa. Così, come sapete, amo definirmi un poeta degli anni '50, un saggista degli anni '60 e '70 e un giovane romanziere degli anni '90.