lunedì 3 novembre 2014

Sebastião Salgado raccontato da Wim Wenders nel film “Il sale della terra”



Il documentario realizzato a due mani col figlio Juliano Ribeiro Salgado


Sopra la scrivania di Wim Wenders, regista che non ha bisogno di presentazioni e caro al diario portoghese per aver immortalato magistralmente Lisbona e i Madredeus, da anni stavano appese delle foto di un certo Sebastião Salgado. Lo affascinava soprattutto quella che ritraeva una donna tuareg cieca. Wenders era rimasto folgorato dal dialogo che quel fotografo - a lui sconosciuto - era riuscito a instaurare con la donna la cui espressione, a dispetto della cecità, rivelava tutta la consapevolezza di sentirsi osservata. Tanto bastava per far capire al regista tedesco che l’autore di quella foto non si era limitato al solo scatto, ma aveva dedicato alla donna tutto il tempo necessario ad instaurare con lei un dialogo. 

Solo anni dopo Wenders avrebbe conosciuto Salgado di persona e ne sarebbe nata una reciproca intesa, tanto da venir invitato dal fotografo brasiliano a seguirlo in uno dei suoi viaggi alla ricerca dei luoghi incontaminati del pianeta con cui stava creando la sua “Genesi”. Con loro viaggiava anche il figlio Juliano Ribeiro, deciso sia a recuperare il complicato rapporto con un padre forzatamente assente per via del suo lavoro, sia a realizzare un documentario sulla sua opera. Da cosa nasce cosa e alla fine di quella lunga avventura a tre verrà alla luce il film di cui tanto si è sentito parlare in questi giorni. “Il sale della terra” questo il titolo del documentario, è approdato di recente al Festival del Cinema di Roma, reduce da Cannes  dove ha ricevuto il premio speciale “Un certain Regard” ed è uscito nelle sale italiane il 23 ottobre u.s.


Inutile tentare di raccontare un film che va semplicemente visto, ma trattandosi di un soggetto molto apprezzato dal nostro Blog che su Salgado si è già diffuso in occasione della Mostra “Genesi”, cerchiamo di carpire qualche curiosità rivelata da Wim Wenders nelle numerose interviste rilasciate durante le sue giornate romane. Scopriamo, ad esempio, che il regista era sì consapevole di documentare non solo un grande fotografo ma anche un grande narratore, mentre ha scoperto più tardi la grande storia che aveva alle spalle. Così il discorso si è allargato, inserendosi nella genealogia dei Salgado. Oltre a testimoniare il rapporto di Sebastião col figlio Jiuliano, quasi una riscoperta tra i due, Wenders ha fatto un viaggio indietro nel tempo tornando ai luoghi dell'infanzia, alla fattoria paterna di Aimorés nel Minas Gerais, un territorio inizialmente pieno di alberi, foreste e animali. Grazie al repertorio di immagini famigliari lo spettatore può assistere allo scempio avvenuto nel giro di una cinquantina d’anni e vedere lo stesso territorio nel frattempo annientato. 

Qui emerge l’altro lato di Salgado, quello ambientalista, con la decisione di riforestare tentando di riportare quella porzione di Amazzonia al suo precedente splendore. Questa scelta, incoraggiata dalla moglie Lélia sua perenne socia in ogni attività, riscatta il fotografo dallo sconforto maturato nei confronti dell’uomo sulla cui crudeltà troppe volte si è imbattuto nei 40 anni di attività svolta in ogni angolo del mondo. Nei suoi scatti ha fermato carestie, lotte per la sopravvivenza e guerre, tanto da arrivare a questa amara conclusione: «Noi umani siamo terribili animali, la nostra è una storia di guerra, repressione. Non meritiamo di vivere». Di fronte al genocidio del Ruanda la sua sfiducia sull'umanità, arrivata al culmine, sfocia in depressione e la tentazione di “appendere al chiodo” la macchina fotografica è forte. Solo il veder germogliare nuovamente le piante seminate gli dà la forza di ricominciare. Per questo Wenders è convinto che «sia proprio la natura ad avergli permesso di non perdere la sua fede nell'uomo». Non a caso Salgado si dedicherà successivamente alla ricerca degli angoli incontaminati del pianeta per immortalarli e lanciare al mondo l’appello a tutelarli.

Quante storie sono racchiuse in questo film: dalle varie tappe del poliedrico Sebastião a ciascuna storia contenuta nel singolo scatto. Wenders ha voluto che a parlare fossero le foto e lo stesso Salgado, come se lo stesse riprendendo nell’atto del suo lavoro. Per riuscirci, ha trovato una soluzione particolarmente efficace e molto apprezzata dalla critica: ha creato una camera oscura in cui Salgado resta isolato, ma attraverso il dispositivo di uno schermo trasparente può guardare le sue foto commentandole e contemporaneamente guardare la camera che lo riprende. «Il risultato -sintetizza il regista - è una triangolazione tra lo spettatore, il suo lavoro e me»

Ardua la selezione delle foto: Wenders ammette che con le migliaia e migliaia di scatti a disposizione avrebbe potuto filmare per un tempo lunghissimo e, pur essendosi basato su una sequenza predefinita, in fase di montaggio è stato necessario tagliare ancora. Impossibile ipotizzare quali tra le immagini oggetto del documentario riusciranno a catturare maggiormente lo spettatore, fornendo magari nuove chiavi di lettura persino ai conoscitori più esperti di Salgado. È lecito tuttavia azzardare che nella top list figurerà  “formigas” della Serra Pelada, quella torre di Babele in cui migliaia e migliaia di uomini scavano freneticamente alla ricerca delle pepite d’oro creando nella montagna una voragine profonda, una miniera a cielo aperto. Ma questa è solo una. Per tutte le altre, lasciamoci la sorpresa.

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