Il documentario realizzato a due mani col figlio Juliano Ribeiro Salgado
Sopra la scrivania di
Wim Wenders, regista che non ha bisogno di presentazioni e caro al diario
portoghese per aver immortalato magistralmente Lisbona e i Madredeus, da anni
stavano appese delle foto di un certo Sebastião Salgado. Lo affascinava
soprattutto quella che ritraeva una donna tuareg cieca. Wenders era rimasto folgorato
dal dialogo che quel fotografo - a lui sconosciuto - era riuscito a instaurare
con la donna la cui espressione, a dispetto della cecità, rivelava tutta la
consapevolezza di sentirsi osservata. Tanto bastava per far capire al regista
tedesco che l’autore di quella foto non si era limitato al solo scatto, ma
aveva dedicato alla donna tutto il tempo necessario ad instaurare con lei un
dialogo.
Solo anni dopo Wenders
avrebbe conosciuto Salgado di persona e ne sarebbe nata una reciproca intesa,
tanto da venir invitato dal fotografo brasiliano a seguirlo in uno dei suoi
viaggi alla ricerca dei luoghi incontaminati del pianeta con cui stava creando
la sua “Genesi”. Con loro viaggiava anche il figlio Juliano Ribeiro, deciso sia
a recuperare il complicato rapporto con un padre forzatamente assente per via
del suo lavoro, sia a realizzare un documentario sulla sua opera. Da cosa nasce
cosa e alla fine di quella lunga avventura a tre verrà alla luce il film di cui
tanto si è sentito parlare in questi giorni. “Il sale della terra” questo il
titolo del documentario, è approdato di recente al Festival del Cinema di Roma,
reduce da Cannes dove ha ricevuto il
premio speciale “Un certain Regard” ed è uscito nelle sale italiane il 23
ottobre u.s.
Inutile tentare di
raccontare un film che va semplicemente visto, ma trattandosi di un soggetto
molto apprezzato dal nostro Blog che su Salgado si è già diffuso in occasione
della Mostra “Genesi”, cerchiamo di carpire qualche curiosità rivelata da Wim
Wenders nelle numerose interviste rilasciate durante le sue giornate romane.
Scopriamo, ad esempio, che il regista era sì consapevole di documentare non
solo un grande fotografo ma anche un grande narratore, mentre ha scoperto più
tardi la grande storia che aveva alle spalle. Così il discorso si è allargato,
inserendosi nella genealogia dei Salgado. Oltre a testimoniare il rapporto di
Sebastião col figlio Jiuliano, quasi una riscoperta tra i due, Wenders ha fatto
un viaggio indietro nel tempo tornando ai luoghi dell'infanzia, alla fattoria
paterna di Aimorés nel Minas Gerais, un territorio inizialmente pieno di
alberi, foreste e animali. Grazie al repertorio di immagini famigliari lo
spettatore può assistere allo scempio avvenuto nel giro di una cinquantina d’anni
e vedere lo stesso territorio nel frattempo annientato.
Qui emerge l’altro lato
di Salgado, quello ambientalista, con la decisione di riforestare tentando di
riportare quella porzione di Amazzonia al suo precedente splendore. Questa
scelta, incoraggiata dalla moglie Lélia sua perenne socia in ogni attività,
riscatta il fotografo dallo sconforto maturato nei confronti dell’uomo sulla
cui crudeltà troppe volte si è imbattuto nei 40 anni di attività svolta in ogni
angolo del mondo. Nei suoi scatti ha fermato carestie, lotte per la
sopravvivenza e guerre, tanto da arrivare a questa amara conclusione: «Noi
umani siamo terribili animali, la nostra è una storia di guerra, repressione.
Non meritiamo di vivere». Di fronte al genocidio del Ruanda la
sua sfiducia sull'umanità, arrivata al culmine, sfocia in depressione e la
tentazione di “appendere al chiodo” la macchina fotografica è forte. Solo il
veder germogliare nuovamente le piante seminate gli dà la forza di
ricominciare. Per questo Wenders è convinto che «sia proprio la
natura ad avergli permesso di non perdere la sua fede nell'uomo».
Non a caso Salgado si dedicherà successivamente alla ricerca degli angoli
incontaminati del pianeta per immortalarli e lanciare al mondo l’appello a
tutelarli.
Quante storie sono
racchiuse in questo film: dalle varie tappe del poliedrico Sebastião a ciascuna
storia contenuta nel singolo scatto. Wenders ha voluto che a parlare fossero le
foto e lo stesso Salgado, come se lo stesse riprendendo nell’atto del suo
lavoro. Per riuscirci, ha trovato una soluzione particolarmente efficace e
molto apprezzata dalla critica: ha creato una camera oscura in cui Salgado
resta isolato, ma attraverso il dispositivo di uno schermo trasparente può
guardare le sue foto commentandole e contemporaneamente guardare la camera che
lo riprende. «Il
risultato -sintetizza il regista - è una triangolazione tra lo spettatore, il
suo lavoro e me».
Ardua la selezione
delle foto: Wenders ammette che con le migliaia e migliaia di scatti a
disposizione avrebbe potuto filmare per un tempo lunghissimo e, pur essendosi
basato su una sequenza predefinita, in fase di montaggio è stato necessario
tagliare ancora. Impossibile ipotizzare quali tra le immagini oggetto del
documentario riusciranno a catturare maggiormente lo spettatore, fornendo
magari nuove chiavi di lettura persino ai conoscitori più esperti di Salgado. È
lecito tuttavia azzardare che nella top list figurerà “formigas” della Serra Pelada, quella torre di
Babele in cui migliaia e migliaia di uomini scavano freneticamente alla ricerca
delle pepite d’oro creando nella montagna una voragine profonda, una miniera a
cielo aperto. Ma questa è solo una. Per tutte le altre, lasciamoci la sorpresa.
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