venerdì 7 settembre 2012

"L'uomo dallo stecchino in bocca" di João Melo: un racconto

La casa editrice Urogallo fa un regalo ai suoi lettori e dà loro la possibilità di scaricare gratuitamente dal sito gli estratti dei libri in pubblicazione. Incuriosite da questa bella iniziativa, siamo rimaste piacevolmente sorprese dalla prosa eclettica, verbosa, a tratti sconnessa di un autore angolano, quasi completamente dimenticato dal panorama italiano: João Melo. Vi proponiamo uno dei quattro racconti della raccolta L’uomo dallo stecchino in bocca, certi di incontrare il vostro interesse, sebbene l’immediatezza comunicativa e la prosa tagliente del nostro autore richiedano di certo uno sforzo per apprezzarne il valore.  

Cazzo!

Un Paese in cui se dici “Touareg” si pensa a una “macchina da amante” non è un Paese! Ovviamente non sono stato io a dirlo. È anche vero che, non è stato nessuno a dirlo, visto che una delle virtù tipiche degli angolani, è quella di essere discreti e di sapersela cavare. Questo ha permesso loro di sopravvivere a tutte le sventure che, nei secoli, li hanno costantemente perseguitati. Intanto, non riporterò qui tali sciagure poiché, come mi ha garantito una stimata professoressa, la letteratura non si può limitare a essere una mera trascrizione della realtà. Inoltre, ciò che per qualcuno è sfortuna da altri può essere considerato un giusto e meritato castigo. Chi può comprendere in modo pieno e soddisfacente i meandri della mente umana? Allora scrivo: lo sfogo si limitò a svolazzare dentro la testa del vecchio Zacaria, come un uccello del malaugurio, quando vide scendere elegantemente dalla jeep verde bottiglia, lucidata a specchio quella mulatta slanciata, dalla chioma fulva, con le labbra scarlatte, gli occhi scuri, l’abito che le scivolava morbidamente sul corpo e le scarpe alte e sottili. La scena scorse lentamente, come in un film al rallentatore ed ebbe un impatto olistico: tutt’intorno, gli uomini si fermarono e si concentrarono sulla straordinaria figura che sembrava uscita da un universo sconosciuto; le donne si sentirono stranamente violentate e persino i cani smisero di abbaiare. Fra i denti, il vecchio Zacaria mormorò con esitazione una parolina proibita, che il decoro mi impedirebbe di scrivere nel testo: «Cazzo!» Si dice che da quel giorno il vecchio Zacaria impazzì definitivamente. Niente di tutto ciò. Niente di tutto ciò. Ancora una volta, non sono stato io a proferire questa frase piena di angoscia. Il suo autore è Romero O Kota, al quale adesso cedo la parola. Agisco – devo dirlo – con le migliori intenzioni, poiché, credetemi, fare il narratore non è facile. Siamo malvisti da tutti. Alcuni pensano che abbiamo qualcosa a che fare con l’autore, quando questi, per regola generale, altro non è che un povero disgraziato, come nel mio caso. Cerco di spiegare chiaramente che, quando scrivo, sono posseduto da una sorta di spirito che desidera soltanto la mia disfatta, ma nessuno crede nella mia innocenza. Altri giurano e spergiurano che cerco vigliaccamente di nascondermi dietro ai personaggi. Cito Jorge Amado e Agualusa per affermare che sono i personaggi a comandare la narrazione, ma, dato che i lettori non conoscono nessuno di questi notevoli scrittori, mi accusano di essere un bugiardo compulsivo. Ripeto: la vita del narratore non è per nulla facile. D’altronde, non a caso, l’opinione pubblica afferma perentoriamente che la bugia è come la valanga; più rotola, più s’ingrossa. Odio questa presunta verità, anche perché nulla posso contro di lei. È difficile affrontare verità presunte.

Ora, la parola a Romero O Kota. Conobbi Zacaria alla vecchia Fazenda e Contabilidade. Un funzionario esemplare. Adesso pare una banalità. Le parole, a forza di ripetizioni, perdono l’anima. I comizi sono sempre grandiosi. I capi sono sempre chiaroveggenti. I mariti, alla loro morte, vengono ricordati per essere stati in vita oculati capi di famiglia. Una volta non era così. Ma Zacaria era davvero esemplare. Non fu mai promosso direttore dei servizi solo perché era nero. Per questo, non gli piacevano le ingiustizie. Non lo sapeva nessuno. Soltanto io. Zacaria era legato alla rete clandestina che appoggiava la guerriglia della 1° Regione. Nascondeva in casa sua, nel Bairro dos Saiotes, a Luanda, dei guerriglieri che penetravano furtivamente in città, alla ricerca di viveri. Regolarmente, nei fine settimana, andava fino a Caxito, ufficialmente per fare un picnic con la famiglia ma, nel cammino, si incontrava coi guerriglieri. Quando la PIDE lo scoprì, Zacaria venne catturato. Si fece tre anni di galera. È questo che lo ha lasciato frastornato. Mi ricordo come se fosse oggi il giorno in cui uscì. Accompagnai sua moglie, che lo era andato a prendere al carcere di São Paulo. Si abbracciarono silenziosamente. Poi, mi strinse la mano. Invece di un sorriso, giuro che vidi sulla sua bocca, in sordina, una parola che non avevo mai sentito prima: «Cazzo!». Non fu la prigione che lo fece impazzire, nossignore. Quando lo conobbi, parlava già a vanvera. Ma era un grande ipocrita… Sembrava tutto perfettino, ma dalla sua bocca usciva tutto e niente… Addirittura, a volte, sobbalzavo alle parolacce che diceva… Quando tornava dal lavoro, farneticava sempre… Quando scopavamo (scusatemi ma, sinceramente, non abbiamo mai fatto l’amore), diceva: «Cazzo! Cazzo! Cazzo!» Non sbagliatevi: le inusitate rivelazioni già citate le ha fatte la moglie del vecchio Zacaria; la quale aggiunge anche quest’altra citazione estratta dal repertorio escatologico del marito: «Quando se ne vanno questi coloni di merda?». Questa domanda era sempre sulla sua bocca. Penso che sia per questo che era mezzo suonato. Sì, è vero, era anche un funzionario esemplare. Il suo capo, un bianco di Trás-os-Montes, diceva che era un nero civilizzato. Addirittura lo invitò a una festa. Ma Zacaria non ci andò. Era un cospiratore. Tuttavia, a tutt’oggi non ha mai apprezzato veramente qualcuno. È cambiato soltanto dopo la Dipanda. Una metamorfosi totale: lo Zacaria che ho sempre desiderato ma che ho avuto soltanto per un lasso di tempo breve quanto un sogno mattutino. Si ammansì. Addirittura, quando tornava a casa, salutava. Confesso: ho nostalgia di quei baci calmi e umidi sul mio viso!… Cominciò a preoccuparsi dei figli. Un giorno, dopo aver fatto l’amore, finalmente esclamò: «Ti amo, donna!». Tuttavia, la Dipanda finì velocemente. Per me, terminò il giorno in cui Zacaria tornò a casa e non mi baciò. Cominciò a urlare (questo verbo mi piace poiché si confà al nostro lato animalesco): «Chi si credono di essere questi? Siamo noi che abbiamo sopportato questa merda mentre loro erano là fuori! Che cosa ne sanno loro? Niente! Perché adesso ci allontanano?!…» E, come al solito: «Cazzo!». Il narratore si compiace, per non aver ancora chiamato il vecchio Zacaria “Compagno Cazzo”, come si diceva all’epoca, o “Dottor Cazzo”, come raccomandano gli standard di adesso, ricreati dai giovani infatuati post-socialismo, ma la stimata professoressa di letteratura nuovamente gli ricorda: «L’eccesso di ovvietà cancella la realtà…». Per cui è meglio che non interferisca nella storia del vecchio Zacaria.

Eppure non riesco a fare a meno di raccontare, pur rischiando di essere additato per strada come letterale, che egli quando seppe, qualche mese dopo l’indipendenza, che il suo nuovo direttore era un vecchio servitore della divisione dove lavorava, riuscì a ottenere l’esonero e cominciò a lavorare come contabile. Così tirò avanti i primi quindici anni di indipendenza, sopportando, come quasi tutti, sacrifici veramente straordinari, ma senza mai chiedere nulla a nessuno. Quando l’avventura socialista venne sostituita dalla cosiddetta democrazia e poi dal capitalismo, iniziò a diffidare dei nuovi discorsi, visto che dietro vedeva le stesse maschere di sempre, il che gli faceva venire una voglia matta di emettere i suoi famosi “cazzo”. Tanto che, davanti al caos generale che si era diffuso nel paese pensò che era tutto definitivamente perso. Informò i suoi clienti che non avrebbe più lavorato per loro, collocò i suoi libri di contabilità nel fondo di un cassetto qualsiasi e cominciò a sedersi tutti i pomeriggi, immancabilmente, nel balcone dell’appartamento in cui viveva, godendosi il movimento della città con l’aria sinceramente compunta di chi si trova alla veglia funebre di qualcuno che gli è stato molto caro. A chi lo osservava dalla strada, sembrava che un’ombra senza colore avesse avvolto completamente la sua figura fragile e triste. Doveva trattarsi di sofferenza. Fu da questo balcone che il vecchio Zacaria vide la mulatta dalla capigliatura fulva scendere dal Touareg, alle tre del pomeriggio, a Luanda, come se si stesse dirigendo a una serata di gala a Hollywood. Una puttana, di certo. Un uccello del malaugurio sbatté le ali dentro la testa del vecchio Zacaria. Egli non lo sentì. Indolenziti e lenti i pensieri dentro la sua testa: «L’Angola è perduta… Un Paese dove una jeep Touareg è una “macchina da amante” non è un Paese!… Che vergogna!… Sarà l’amante di qualche generale, qualche ministro, qualche trafficante di diamanti o chissà che!… Guarda un po’… questo è il vestito da usare a quest’ora, con tutto questo sole, questa polvere, questa spazzatura, questo degrado?». Degrado. Questa parola perseguitava da molto tempo il vecchio Zacaria. Nella sua testa assumeva varie forme. Come direbbe la professoressa di letteratura, era una parola multiforme o polisemica. La cosa peggiore era il degrado morale. Non ci sono più principi. Non ci sono valori. Tutto vale. Dove s’è mai vista, all’epoca, una puttana andare con una jeep come questa in pieno giorno? La donna camminava verso il palazzo dove abitava il vecchio Zacaria prima dell’indipendenza. Quando i coloni e i loro scatoloni se ne andarono, nel ’75, non volle occupare nessuna casa. Quell’appartamento gli bastava, a lui e alla sua famiglia: donna Domingas, già deceduta, il figlio scomparso in guerra e la figlia buttata fuori di casa il giorno in cui lei gli sbatté in faccia questa frase strana: «Papà, sei fuori dal mondo!» Il vecchio Zacaria non ammetteva frasi ambigue. Per lui, pane al pane, vino al vino. Dalla terrazza che da tempo aveva trasformato in una specie di osservatorio del degrado quotidiano che stava inesorabilmente espandendosi per la città, accompagnò con lo sguardo la donna dalla capigliatura fulva e gli occhi scuri che si dirigeva verso il suo palazzo. Adesso che viveva solo, senza nessuno che potesse civilizzare il suo linguaggio, poté esclamare, con un misto di sollievo e di rabbia: «Cazzo!» Il resto della storia è veloce. Due scampanellate. Chi sarà? Da secoli, quasi, nessuno lo andava a trovare. «Violante!?» La figlia cacciata di casa. Capigliatura fulva, occhi scuri, abito che le scivola morbidamente sul corpo, scarpe alte e sottili. Un sorriso che gli acceca lo sguardo. Ditemi, cari lettori: come reagireste se foste al posto del vecchio Zacaria?

(Racconto incluso nella raccolta L’uomo dallo Stecchino in Bocca, Edizioni Urogallo, 2010, traduzione dal portoghese di Donatella Orioli)

Per maggiori informazioni sull’autore e sulla raccolta di racconti, si veda il sito della casa editrice Urogallo.


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