Considerato dalla critica come uno degli scrittori contemporanei più interessanti del panorama internazionale, Mia Couto è stato recentemente insignito di due prestigiosi riconoscimenti letterari: dell'ambito premio Camões a Rio de Janeiro e del premio internazionale Neustadt 2014 (leggi il post su Il Diario Portoghese del 4 novembre u.s.).
Il suo ultimo romanzo edito in Italia è a cura di Urogallo Edizioni, nella traduzione italiana di Antonia Ruspolini, e si intitola Ventizinco. Il libro era stato pubblicato in Portogallo nel 1999, in occasione del 25º anniversario della Rivoluzione del 25 aprile 1974 e costituisce una riflessione sul senso che la Rivoluzione dei Garofani ha assunto negli anni, dentro e fuori il Portogallo. Ambientato in una piccola città dell'interno del Mozambico, lo scrittore apre una finestra sui giorni che precedono e seguono la caduta del regime coloniale; il libro è diviso in capitoli, ciascuno dedicato a una giornata tra il 19 e il 30 aprile 1974 e, attraverso il racconto di vite sconvolte dai convulsi cambiamenti politici del periodo, indaga varie tematiche, tra cui la condizione della donna durante gli anni della dittatura, il rapporto tra bianco-nero e la violenza del regime coloniale.
Il suo ultimo romanzo edito in Italia è a cura di Urogallo Edizioni, nella traduzione italiana di Antonia Ruspolini, e si intitola Ventizinco. Il libro era stato pubblicato in Portogallo nel 1999, in occasione del 25º anniversario della Rivoluzione del 25 aprile 1974 e costituisce una riflessione sul senso che la Rivoluzione dei Garofani ha assunto negli anni, dentro e fuori il Portogallo. Ambientato in una piccola città dell'interno del Mozambico, lo scrittore apre una finestra sui giorni che precedono e seguono la caduta del regime coloniale; il libro è diviso in capitoli, ciascuno dedicato a una giornata tra il 19 e il 30 aprile 1974 e, attraverso il racconto di vite sconvolte dai convulsi cambiamenti politici del periodo, indaga varie tematiche, tra cui la condizione della donna durante gli anni della dittatura, il rapporto tra bianco-nero e la violenza del regime coloniale.
Nell'attesa di poter avere fra le mani il romanzo, godiamoci la lettura di un breve estratto:
«Lourenço de Castro
entra in casa, alla stessa ora di sempre, quell’ora in cui la luce soffre,
stanca di tanto giorno. Ruota la maniglia della porta con cautela, come se il
mondo potesse disaggregarsi a partire da quel gesto. E subito la voce della
madre luminando la fine del corridoio.
«Sei tu, figlio mio?»
Donna Margarida compare
nell’atrio della vecchia casa coloniale. Copre le spalle del figlio con una
giacca fatta con le sue mani. È fine estate, ma le notti sono già più fresche
lungo il litorale. Lourenço de Castro si stringe nelle spalle, lascia che la
mamma gliela metta. Un’altra volta stanco, più morto di un pesce. Nessuno
comprende fino in fondo la difficoltà di essere un ispettore della PIDE, in
mezzo alla foresta africana, là dove il piede del bianco non si è mai posato. A
Moebase ci sono altri bianchi, sì, ma pochi. Le dita di una mano avanzano, se
li vogliamo contare. Chi c’è? Padre Ramos, il dottor Peixoto, l’amministratore
Marques e l’agente Diamantino. Più le due donne di casa, la mamma e la zia
Irene. Ma le donne non contano. Così si diceva in casa Castro. La maggior parte
delle volte addirittura scontano, aggiungevano.
Il ritorno a casa di
Lourenço de Castro è un rituale, sempre uguale, la madre, infallibile, prodiga
le cure che sono dovute ad un guerriero. Ma questo guerriero non emana gloria.
L’ispettore Lourenço si trascina fino al bagno e si lava le mani. L’acqua corre
come se non bastasse un fiume a pulirlo.
«Perché non confessano?
Che gli costerebbe…?»
Il sangue continua a
gocciolinare nella bacinella. Lui stende in avanti le braccia, ancora umide,
la madre le asciuga con tenero vigore.
«Ti sei lavato bene,
tesoro? Adesso vieni. Ti ho già preparato il lettino».
Il pide va in cucina e passa di nuovo le
mani sotto l’acqua. Annusa le dita come se volesse confermare l’ostinazione di
qualche macchia. La vecchia madre lo prende fra le braccia, gli bacia le dita
delicate.
«Mani belle, mi
ricordano…»
«Sono stanco, mamma,
voglio dormire. Dov’è il panno?»
«Il panno è a lavare.
Era tutto sbavato. Stai sbavando molto, sono preoccupata, non sarà uno di
questi malanni africani…»
«Io non dormo senza il
panno, lo sai, mamma».
«C’è un altro panno già
tutto lavato sotto il tuo bel cuscino».
Il pide si corica. La madre, al
capezzale, gli rimbocca le lenzuola. Il figlio, inquieto, scruta la stanza:
«Il cavallino?»
«Adesso ti porto il
cavallino, non ti preoccupare».
Lei trascina un
cavallino di legno, lo posiziona in modo che Lourenço ne possa toccare la
criniera. Il pide conficca le
sue dita nella groppa del cavallino e lo fa dondolare.
«E la zia Irene?»
La madre distoglie lo
sguardo. Sempre la solita, questa Irene. Che vergogna, una bianca che si
comporta in quel modo, disposseduta dal giudizio. E peggio che aver perso la
ragione: lei aveva perso il pudore.
«Che destino il nostro,
figlio mio!»
Pausa, sospiri.
L’agente smette di dondolare il cavallo. Si solleva un pochino per guardare
meglio il volto di Donna Margarida.
«È uscita di nuovo
oggi?»
«È uscita, sì».
«È tornata un’altra
volta tutta sporca?»
«Sporca!? Quella è
argilla, una cosa pulita».
«Argilla? È matope, te lo dico io. Questa
faccenda deve finire, mamma. La zia Irene ci compromette e noi abbiamo un nome
da difendere».
«Abbi pazienza,
Lourenço. Irene è la nostra unica famiglia. Non te ne dimenticare, non abbiamo
più nessuno».
Il silenzio che cala fa
pensare alla colpa. Qualche punizione divina. Chissà, artigianato del diavolo.
Sembra che la stanza sia stata soffocata. L’ispettore si esamina le braccia,
come se cercasse un dettaglio fuori posto.
«Questo qui è sangue,
no?»
«No, figlio mio, no.
Stringiti al panno e dormi».
«Dormire? Se sapessi,
mamma, l’odio che ho per questi negri».
«Non dire così, figlio
mio. Ce n’è di buoni e di cattivi».
La mamma si ritira,
schiena curva, arrotondata come il dorso del corvo. Il corridoio la riceve come
se appartenesse alle tenebre. E tutto fluisce, silenzio e oscurità. Passano le
ore e le luci di nuovo si accendono, interrompendo la notte. Le grida di
Lourenço echeggiano nel corridoio. La madre si precipita, senza fretta. Ha in
mano un bicchiere di latte. Quando si china sul figlio sa già cosa succede.
«Un altro incubo?»
Lourenço non risponde,
occupato a respirare. Il sudore si svolge, un liquido lenzuolo lo ricopre.
«I tamburi, non li
senti?»
«Era un batuque, ma ha già smesso da un po’».
«Ma io continuo a
sentire, mamma».
Lei si siede al
capezzale, gli pulisce il sudore e gli porge il latte tiepido. Il figlio lo
rifiuta. C’è una rabbia che non riesce a controllare. La madre corregge la
porta, benché non ci sia nemmeno un refolo di vento. Se non tira brezza, per
quale ragione la bandiera portoghese è caduta dalla parete a cui era appesa?
«È quel cieco, un
giorno o l’altro quello là lo faccio fuori».
«Il cieco Tchuvisco?
Dio già l’ha castigato. Che male può fare quel povero diavolo?»
«È quello là che
combina tutto questo, mamma».
«Sciocchezze, figlio
mio».
«Credimi, io conosco
questa gente».
«Mi sembri agitato,
Lourenço. Promettimi: domani andiamo dal dottor Peixoto».
«Non sto male, mamma».
«Ma lui già cura la zia
Irene, non costa nulla…»
«Non ci vado, ho già
detto che non ci vado».
La madre accarezza i
capelli del figlio. La respirazione dissoffoca, gli occhi sono sospesi
nell’infinito del soffitto.
«Mamma, mi puoi
controllare?»
«Un’altra volta
l’ombelico, Lourencinho?»
«Mi sta crescendo,
mamma. Davvero. Questa volta davvero. Già sento uscirmi il cordone
ombelicale».
«Lascia che ti faccia
un massaggio e passa tutto».
La madre si stende sul
letto e nasconde le mani sotto le lenzuola. I suoi occhi ospitano molta
tenerezza.
«Vedi, mamma? Non te lo
dicevo?»
«Adesso passa, figlio
mio».
«Questa può solo essere
una fattura da negri. È quel cieco, mamma».
La mamma tenta di nuovo
una ritirata. Sulla porta riprende coraggio e domanda:
«Fa tanto caldo. Non
vuoi proprio un ventilatore?»
«No, il ventilatore
mai».
«Va bene, va bene! Era
solo un’idea. Dormi, figlio mio. Dormi».
(Ventizinco, Mia Couto, traduzione dal
portoghese di Antonia Ruspolini, Urogallo, 2013)
Qualche
nota biografica di Mia Couto: nato a Beira, in Mozambico, nel 1955, si è
dedicato agli studi di medicina, scegliendo in seguito la strada del
giornalismo e della scrittura. Attivo nel campo della difesa dell’ambiente, Mia
Couto è noto nel mondo letterario per l’uso molto originale della lingua
portoghese, che lo scrittore arricchisce in ogni sua opera coniando neologismi
molto efficaci. In italiano sono state tradotte le seguenti opere: “Voci all’imbrunire” (Edizioni Lavoro, 1993); “Il dono del viandante e
altri racconti” (Ibis, 1997); “Terra sonnambula” (Guanda, 1999); “Sotto
l’albero del frangipani” (Guanda, 2002); “Un fiume chiamato tempo, una casa
chiamata terra” (Guanda, 2005); “Ogni uomo è una razza” (Ibis, 2008); “Perle”
(Quarup, 2011); “Veleni di Dio, medicine del Diavolo” (Voland, 2011). “Ventizinco”
è il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia dalla casa editrice Urogallo.
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