sabato 16 novembre 2013

Viaggio attraverso i classici della letteratura di lingua portoghese: “Il mandarino” di Eça de Queirós

Il Diario Portoghese lancia una nuova rubrica: "Lusoclássicos". Andrea Sironi ci accompagnerà in un viaggio alla (ri)scoperta dei classici della letteratura di lingua portoghese, inediti o già pubblicati in Italia. Prima tappa, uno dei più grandi capolavori del XIX secolo:

Il Mandarino, di Eça de Queirós
Tentazione e rimorso dalle remote province d’Oriente

Riconosciuto come uno dei più importanti esponenti del Realismo europeo, al pari di scrittori del calibro di Guy de Maupassant e Benito Perez Galdós, José Maria Eça de Queirós è considerato a tutti gli effetti il più grande romanziere dell’Ottocento portoghese. Personalità eclettica ed elegante, egli fu scrittore, giornalista, diplomatico e console portoghese in un primo momento a L’Avana, quindi in Inghilterra, dove ricoprì la suddetta carica a Bristol ed in seguito a Newcastle, ed infine nella tanto agognata Parigi, della quale celebrò e descrisse gli sfarzi, lo stile e la vita di società. Eça de Queirós fu inoltre tra gli esponenti più importanti del Cenacolo noto come Geração de 70, un movimento accademico a cui presero parte gli intellettuali più mirabili dell’epoca – Antero de Quental, Oliveira Martins e Jaime Batalha Reis tra gli altri – al fine di concepire e operare un forte rinnovamento culturale che potesse colmare lo scarto rilevabile tra il Portogallo e le grandi potenze europee.

La prima fase della produzione di Eça, se escludiamo il lavoro d’esordio Il Mistero della Strada di Sintra, scritto a quattro mani in compartecipazione con Ramalho Ortigão, pubblicato sul Diàrio de Noticias e dal carattere avventuroso e tardoromantico, è contraddistinta da un’impronta fortemente realista. Romanzi di grande spessore come La Colpa di Padre Amaro e Il Cugino Basilio, con i suoi nitidi richiami a Madame Bovary, suscitarono scalpore e grandi polemiche.

Da questo primo periodo prendono le distanze Il Mandarino e La Reliquia, in cui l’ambientazione esotica fa da sfondo ad una costruzione narrativa impregnata di profondo orientalismo e fervida immaginazione. Scritto nel 1887, La Reliquia riporta di un pellegrinaggio attraverso la Palestina e l’Egitto finalizzato al recupero di un’importante cimelio religioso, sotto il quale si cela invece l’intenzione da parte del protagonista Teodorico Raposo di vivere un’esaltante e avvincente esperienza di viaggio, attraverso terre dall’ammaliante sentore orientale.



Pubblicato sul Diário de Portugal nell’estate del 1880, Il Mandarino narra invece delle avventure sovrannaturali di Teodoro, tranquillo impiegato dalla vita abitudinaria, che risiede nella pensione dell’affascinante vedova Marques in Travessa da Conceição, ed è scrivano presso il ministero del Regno. Le serate di lettura e le domeniche consacrate al risposo sono i piaceri a cui Teodoro mestamente si abbandona. La regolarità delle sue giornate viene però turbata quando un antico e polveroso volume acquistato alla Feria da Ladra, l’eccezionale mercato delle pulci di Lisbona, che ogni martedì e sabato mattina ha luogo alle spalle del Pantheon Nazionale, gli offre la possibilità di cambiare vita attraverso un inverosimile espediente: una figura dall’aspetto diabolico e dall’oratoria faustiana si presenta al cospetto dell’assonnato lettore presentandogli le inestimabili fortune di cui egli sarebbe entrato in possesso, le inenarrabili voluttà di cui avrebbe goduto, se solo avesse premuto l’immaginario campanello apparso dinnanzi ai suoi occhi. Così facendo, egli avrebbe spezzato la vita di un anziano e gottoso Mandarino che abitava i lontani confini della Mongolia, ereditando per intero le sue ricchezze.

Teodoro è un protagonista insolitamente lontano dalle figure bohemièn abitualmente riscontrabili nei romanzi di Eça de Queirós. Lontano dal curioso e intraprendente Teodorico, e dai dandy che caratterizzano la fase cosiddetta dell’Ultimo Eça, come l’eclettico Carlos Fradique Mendes, poeta tagliente, uomo di mondo e autentico eteronimo prima della Geração, e poi dello stesso romanziere, che compila la sua biografia fittizia ne La Corrispondenza di Fradique Mendes, e allo stesso modo diverso da Gonzalo Ramires e Jacinto de Tormes, rispettivamente protagonisti de L’Illustre Casata dei Ramires e de La Città e le Montagne. Teodoro è una persona comune, dal temperamento mite e dall’indole imperturbabile. Egli non resiste alla tentazione e decide di premere il campanello, innescando con questo gesto all’apparenza incolpevole una serie di eventi che lo condurranno alla ricchezza e alla fama, ma, allo stesso tempo, ad un inestinguibile rimorso alimentato dalla costante presenza del fantasma del panciuto Mandarino Ti-Chin-Fu.

Né la fuga a Parigi, dove Teodoro si adagia nella dissolutezza dei piaceri al termine di un grandioso viaggio attraverso l’Europa e il Medio Oriente, né le opere di bene da egli patrocinate poterono dissuadere l’ombra del Mandarino dalla sua incessante opera di tormento. In risposta alle notizie secondo le quali l’intera Cina sembrava essere precipitata in una crisi senza precedenti, Teodoro decide di imbarcarsi sulla Ceylon, salpando dal porto di Marsiglia in direzione dell’Impero di Mezzo, con l’intenzione di porre rimedio all’incauta e rovinosa decisione da lui presa, e di assicurare alla discendenza di Ti-Chin-Fu e all’intera Cina il futuro radioso che egli stesso aveva loro sottratto.

Scortato dal generale Camiloff, ambasciatore russo a Pechino, e da una scorta di cosacchi Teodoro sorpassa la Grande Muraglia e intravede nelle luci scarlatte del tramonto la capitale cinese. Una volta raggiunta la Città Tartara gli emissari al servizio del vecchio generale si adoperano al fine di mettere in contatto il viaggiatore portoghese e la famiglia del compianto Mandarino, mentre Teodoro trascorre ore di conturbante dolcezza in compagnia della bella signora Camiloff all’ombra del Riposo Discreto, una loggia riparata che secondo l’usanza cinese è innalzata in prossimità di un ruscello, nella tranquillità conciliante della natura. Nel frattempo Eça de Queirós scolpisce pagine di intenso e vellutato esotismo, descrivendo i conturbanti profumi, gli elementi che costituiscono la stratificata società cinese, il Palazzo Imperiale e i grandi templi, i monaci buddhisti e le mura fortificate che difendono Pechino. Ma c’è spazio anche per la saudade, che Teodoro esprime nei confronti del suo paese nativo nel Minho, mentre attraverso un riferimento a Goethe e all’Italia l’autore si produce in uno slancio di esotismo al rovescio. Svariati sono gli autori e le opere citati da Eça, che ancora una volta sfodera una monumentale erudizione chiosando Luís Vas de Camões e Almeida Garrett, ma anche Mariano de Larra ed Émile Zola, e ricalcando versi tratti dalle letterature orientali,  pièces teatrali e brani musicali dell’epoca. Se invece intendiamo scoprire da quale opera l’autore abbia attinto – al pari di quanto fece Honoré de Balzac nel suo Père Goriot – la temibile profezia attorno alla quale si snoda l’intera novella, allora dovremo consultare il libro sesto de Il Genio del Cristianesimo di François-René de Chateaubriand, e leggendo il secondo capitolo intitolato Dei rimorsi e della coscienza, ci troveremmo di fronte al terrificante quesito. Un altro aspetto interessante per quanto riguarda le fonti è da riscontrarsi nel fatto che l’autore, che aveva precedentemente visitato i luoghi descritti ne La Reliquia, presenziando peraltro all’apertura del Canale di Suez, non vide mai le località descritte ne Il Mandarino. Le vivide descrizioni compilate da Eça sono la rielaborazione dei resoconti e delle testimonianze di cui il romanziere usufruì nel corso del suo incarico presso il consolato portoghese a Cuba, per conto di alcuni impiegati provenienti da Macao.

Scovati i discendenti di Ti-Chin-Fu nella città di Tien-Ho Teodoro si separa dall’incantevole generalessa, ma una volta raggiunto il luogo in cui egli dovrebbe mettere fine alle sue vicissitudini con un atto di carità, la sua compagnie rischia il linciaggio pubblico, non appena gli abitanti della remota provincia vengono a conoscenza delle ricchezze trasportate dal benefattore. Teodoro ritroverà le forze nella tranquillità e nel raccoglimento monastico di un convento, assistito dai padri missionari che operano in quello che a tutti gli effetti sembra essere un angolo di occidente nelle vaste lande mongole. Fatto ritorno in Portogallo egli proverà a dissimulare l’immenso patrimonio dal quale sgorgano l’ammirazione e il rispetto che potenti, ecclesiastici e persone comuni nutrono nei suoi confronti, ma nemmeno questo ennesimo tentativo riuscirà a estinguere il fantasma del Mandarino dal ventre prominente.

Come recita l’autore stesso nel corso del prologo al racconto, al pari delle allegorie del Rinascimento abbiamo una moralità che si leva dalle pagine de Il Mandarino, ammonendo il lettore su quanto solamente la fortuna che sia stata conquistata con le proprie forze, frutto della propria fatica e non di espedienti e inganni di alcuna sorta, generi realmente felicità e soddisfazione.

(Edizione consultata: Eça de Queirós, Il mandarino, a cura di Paolo Collo, prefazione di Luciana Stegagno Picchio, Passigli editori, 2004)  

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