Il Diario Portoghese lancia una nuova rubrica: "Lusoclássicos". Andrea Sironi ci accompagnerà in un viaggio alla (ri)scoperta dei classici della letteratura di lingua portoghese, inediti o già pubblicati in Italia. Prima tappa, uno dei più grandi capolavori del XIX secolo:
Il Mandarino, di Eça de Queirós
Tentazione e rimorso dalle remote province d’Oriente
Riconosciuto
come uno dei più importanti esponenti del Realismo europeo, al pari di
scrittori del calibro di Guy de Maupassant e Benito Perez Galdós, José Maria
Eça de Queirós è considerato a tutti gli effetti il più grande romanziere
dell’Ottocento portoghese. Personalità eclettica ed elegante, egli fu
scrittore, giornalista, diplomatico e console portoghese in un primo momento a L’Avana,
quindi in Inghilterra, dove ricoprì la suddetta carica a Bristol ed in seguito
a Newcastle, ed infine nella tanto agognata Parigi, della quale celebrò e
descrisse gli sfarzi, lo stile e la vita di società. Eça de Queirós fu inoltre tra
gli esponenti più importanti del Cenacolo noto come Geração de 70, un movimento accademico a cui presero parte gli
intellettuali più mirabili dell’epoca – Antero de Quental, Oliveira Martins e Jaime
Batalha Reis tra gli altri – al fine di concepire e operare un forte
rinnovamento culturale che potesse colmare lo scarto rilevabile tra il
Portogallo e le grandi potenze europee.
La
prima fase della produzione di Eça, se escludiamo il lavoro d’esordio Il Mistero della Strada di Sintra,
scritto a quattro mani in compartecipazione con Ramalho Ortigão, pubblicato sul
Diàrio de Noticias e dal carattere
avventuroso e tardoromantico, è contraddistinta da un’impronta fortemente
realista. Romanzi di grande spessore come La
Colpa di Padre Amaro e Il Cugino
Basilio, con i suoi nitidi richiami a Madame
Bovary, suscitarono scalpore e grandi polemiche.
Da
questo primo periodo prendono le distanze Il
Mandarino e La Reliquia, in cui
l’ambientazione esotica fa da sfondo ad una costruzione narrativa impregnata di
profondo orientalismo e fervida immaginazione. Scritto nel 1887, La Reliquia riporta di un pellegrinaggio
attraverso la Palestina e l’Egitto finalizzato al recupero di un’importante cimelio
religioso, sotto il quale si cela invece l’intenzione da parte del protagonista
Teodorico Raposo di vivere un’esaltante e avvincente esperienza di viaggio, attraverso
terre dall’ammaliante sentore orientale.
Pubblicato
sul Diário de Portugal nell’estate
del 1880, Il Mandarino narra invece delle
avventure sovrannaturali di Teodoro, tranquillo impiegato dalla vita
abitudinaria, che risiede nella pensione dell’affascinante vedova Marques in Travessa da Conceição, ed è scrivano presso
il ministero del Regno. Le serate di lettura e le domeniche consacrate al
risposo sono i piaceri a cui Teodoro mestamente si abbandona. La regolarità
delle sue giornate viene però turbata quando un antico e polveroso volume
acquistato alla Feria da Ladra, l’eccezionale
mercato delle pulci di Lisbona, che ogni martedì e sabato mattina ha luogo alle
spalle del Pantheon Nazionale, gli offre la possibilità di cambiare vita
attraverso un inverosimile espediente: una figura dall’aspetto diabolico e
dall’oratoria faustiana si presenta al cospetto dell’assonnato lettore
presentandogli le inestimabili fortune di cui egli sarebbe entrato in possesso,
le inenarrabili voluttà di cui avrebbe goduto, se solo avesse premuto
l’immaginario campanello apparso dinnanzi ai suoi occhi. Così facendo, egli
avrebbe spezzato la vita di un anziano e gottoso Mandarino che abitava i
lontani confini della Mongolia, ereditando per intero le sue ricchezze.
Teodoro
è un protagonista insolitamente lontano dalle figure bohemièn abitualmente riscontrabili nei romanzi di Eça de Queirós.
Lontano dal curioso e intraprendente Teodorico, e dai dandy che caratterizzano la fase cosiddetta dell’Ultimo Eça, come
l’eclettico Carlos Fradique Mendes, poeta tagliente, uomo di mondo e autentico
eteronimo prima della Geração, e poi
dello stesso romanziere, che compila la sua biografia fittizia ne La Corrispondenza di Fradique Mendes, e
allo stesso modo diverso da Gonzalo Ramires e Jacinto de Tormes, rispettivamente protagonisti de L’Illustre Casata dei Ramires e de La Città e le Montagne.
Teodoro è una persona comune, dal temperamento mite e dall’indole
imperturbabile. Egli non resiste alla tentazione e decide di premere il
campanello, innescando con questo gesto all’apparenza incolpevole una serie di
eventi che lo condurranno alla ricchezza e alla fama, ma, allo stesso tempo, ad
un inestinguibile rimorso alimentato dalla costante presenza del fantasma del
panciuto Mandarino Ti-Chin-Fu.
Né
la fuga a Parigi, dove Teodoro si adagia nella dissolutezza dei piaceri al
termine di un grandioso viaggio attraverso l’Europa e il Medio Oriente, né le opere
di bene da egli patrocinate poterono dissuadere l’ombra del Mandarino dalla sua
incessante opera di tormento. In risposta alle notizie secondo le quali
l’intera Cina sembrava essere precipitata in una crisi senza precedenti,
Teodoro decide di imbarcarsi sulla Ceylon,
salpando dal porto di Marsiglia in direzione dell’Impero di Mezzo, con
l’intenzione di porre rimedio all’incauta e rovinosa decisione da lui presa, e
di assicurare alla discendenza di Ti-Chin-Fu e all’intera Cina il futuro
radioso che egli stesso aveva loro sottratto.
Scortato
dal generale Camiloff, ambasciatore russo a Pechino, e da una scorta di
cosacchi Teodoro sorpassa la Grande Muraglia e intravede nelle luci scarlatte
del tramonto la capitale cinese. Una volta raggiunta la Città Tartara gli
emissari al servizio del vecchio generale si adoperano al fine di mettere in
contatto il viaggiatore portoghese e la famiglia del compianto Mandarino,
mentre Teodoro trascorre ore di conturbante dolcezza in compagnia della bella
signora Camiloff all’ombra del Riposo Discreto, una loggia riparata che secondo
l’usanza cinese è innalzata in prossimità di un ruscello, nella tranquillità
conciliante della natura. Nel frattempo Eça de Queirós scolpisce pagine di
intenso e vellutato esotismo, descrivendo i conturbanti profumi, gli elementi
che costituiscono la stratificata società cinese, il Palazzo Imperiale e i
grandi templi, i monaci buddhisti e le mura fortificate che difendono Pechino.
Ma c’è spazio anche per la saudade,
che Teodoro esprime nei confronti del suo paese nativo nel Minho, mentre
attraverso un riferimento a Goethe e all’Italia l’autore si produce in uno
slancio di esotismo al rovescio. Svariati sono gli autori e le opere citati da
Eça, che ancora una volta sfodera una monumentale erudizione chiosando Luís Vas
de Camões e Almeida Garrett, ma anche Mariano de Larra ed Émile Zola, e
ricalcando versi tratti dalle letterature orientali, pièces
teatrali e brani musicali dell’epoca. Se invece intendiamo scoprire da quale
opera l’autore abbia attinto – al pari di quanto fece Honoré de Balzac nel suo Père Goriot – la temibile profezia
attorno alla quale si snoda l’intera novella, allora dovremo consultare il
libro sesto de Il Genio del Cristianesimo
di François-René de Chateaubriand, e leggendo il secondo capitolo intitolato Dei rimorsi e della coscienza, ci
troveremmo di fronte al terrificante quesito. Un altro aspetto interessante per
quanto riguarda le fonti è da riscontrarsi nel fatto che l’autore, che aveva
precedentemente visitato i luoghi descritti ne La Reliquia, presenziando peraltro all’apertura del Canale di Suez,
non vide mai le località descritte ne Il
Mandarino. Le vivide descrizioni compilate da Eça sono la rielaborazione
dei resoconti e delle testimonianze di cui il romanziere usufruì nel corso del
suo incarico presso il consolato portoghese a Cuba, per conto di alcuni
impiegati provenienti da Macao.
Scovati
i discendenti di Ti-Chin-Fu nella città di Tien-Ho Teodoro si separa
dall’incantevole generalessa, ma una volta raggiunto il luogo in cui egli
dovrebbe mettere fine alle sue vicissitudini con un atto di carità, la sua
compagnie rischia il linciaggio pubblico, non appena gli abitanti della remota
provincia vengono a conoscenza delle ricchezze trasportate dal benefattore.
Teodoro ritroverà le forze nella tranquillità e nel raccoglimento monastico di
un convento, assistito dai padri missionari che operano in quello che a tutti
gli effetti sembra essere un angolo di occidente nelle vaste lande mongole. Fatto
ritorno in Portogallo egli proverà a dissimulare l’immenso patrimonio dal quale
sgorgano l’ammirazione e il rispetto che potenti, ecclesiastici e persone
comuni nutrono nei suoi confronti, ma nemmeno questo ennesimo tentativo
riuscirà a estinguere il fantasma del Mandarino dal ventre prominente.
Come
recita l’autore stesso nel corso del prologo al racconto, al pari delle
allegorie del Rinascimento abbiamo una moralità che si leva dalle pagine de Il Mandarino, ammonendo il lettore su
quanto solamente la fortuna che sia stata conquistata con le proprie forze,
frutto della propria fatica e non di espedienti e inganni di alcuna sorta, generi
realmente felicità e soddisfazione.
(Edizione consultata: Eça de Queirós, Il mandarino, a cura di Paolo Collo, prefazione di Luciana Stegagno Picchio, Passigli editori, 2004)
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