I racconti di Dório Finetto trasformati nell’appassionante romanzo tradotto anche in italiano
Ammiratori dichiarati di Luíz Ruffato non
perdiamo occasione di acquistare ogni suo libro arrivi finalmente in Italia.
Così avevamo fatto la primavera scorsa con “Fiori Artificiali”. Ma, come si
suol dire, il tempo è tiranno e solo da poco siamo riusciti a dedicarci alla
sua lettura. Desideriamo parlarne coi nostri lettori, esprimere qualche
sensazione affidandola al Blog senza pretesa alcuna di farne una recensione, il
cui ruolo spetta ad altri. Magari col desiderio, questo sì, di contagiare col
nostro entusiasmo altri appassionati lusofoni, pochi o tanti essi siano.
Partiamo da una confessione: perché
intitolare il libro “Flores artificiais”?, ci eravamo chiesti. Come mai un
titolo tanto criptico e indecifrabile? Senza leggerlo l’interrogativo sarebbe
rimasto anche senza la risposta, che emerge poi in tutta chiarezza: non vi è
titolo più azzeccato. Ruffato offre al lettore un bouquet di undici fiori,
quanti sono i capitoli da cui è composto il romanzo incluse presentazione, postfazione
e, soprattutto, una lettera. È proprio la lettera che impone di accostare alla
parola Fiori l’aggettivo artificiali.
Più volte, nel corso della lettura, il pensiero corre all’autore che immaginiamo
aprire la busta indirizzatagli da uno sconosciuto e vorremmo sapere che reazione
ha avuto: stupore? Irritazione? Forse solo il suo amato gatto (chiamato
Federico Felino) avrà potuto coglierne l’espressione del viso. La busta
contiene la lettera che tale Dório Finetto, originario della stessa zona del
Minas Gerais che ha dato i natali a Ruffato e di cui si dichiara lontano
parente, avanza una proposta quanto meno bizzarra.
Di fatto, l’autore della missiva porge a sua
volta un simbolico mazzo di fiori al celebre scrittore, ovvero un manoscritto (“Viagens
à terra alheia”) in cui ha raccolto una serie di episodi particolari della sua
vita trascorsa negli angoli più disparati del mondo. Lasciato il Brasile dopo
la laurea in Ingegneria, Finetto diventa consulente della Banca Mondiale nell’area
delle infrastrutture e, tramite la sua attività fitta di spostamenti, gli
capita di fare conoscenze tanto occasionali quanto fuori dal comune. Ha casa a
Washington e conserva un alloggio anche a Rio de Janeiro, ma non ha famiglia, è
solo e depresso. Su suggerimento della sua psichiatra mette per iscritto i
ricordi ancora vivi di alcuni incontri e, ben lungi dall’idea di diventare
scrittore, affida a un autore noto (che lui tuttavia non conosceva prima che
gliene parlasse la sua terapeuta) tutte quelle pagine affinché ne faccia l’uso
che preferisce. Ammesso che abbia tempo e voglia di leggerle.
Benché poco incline all’idea di farsi
divulgatore di testi altrui, Ruffato accetta, complice anche la singolarità
vuoi delle storie narrate vuoi dell’origine comune che lo lega a Finetto: la
discendenza da famiglie venete emigrate a Rodeiro, lo stesso sperduto angolo
del “continente” Brasile. Ecco perché il bouquet che firma Ruffato,
riverniciando la trama (per usare l'espressione di Dório) e riformulando lo
stile (per dirla con le parole dello scrittore) non è fatto di fiori freschi
bensì artificiali.
Se è appassionante per il lettore balzare tra
Paesi e Continenti immedesimandosi via via nelle diverse figure che popolano il
racconto, talora così insolite da sembrare quasi immaginarie, è altrettanto
lecito ritenere che questo viaggio sia stato appassionante pure per Ruffato.
Impresa tutt’altro che semplice la sua come autore, visto che Finetto aveva
stilato “Viagens à terra alheia” in tre lingue diverse: brasiliano, spagnolo e
inglese. Così lo scrittore ha dovuto cercare di rendere omogeneo il linguaggio.
L’operazione è riuscita tanto che anche in questo libro conserva intatto quel
suo stile personalissimo cui deve, tra le molte, la consacrazione venutagli dal
quotidiano O estado de São Paulo: «Un giorno ci si ricorderà di questo periodo
come degli anni in cui comparve uno scrittore, chiamato Luiz Ruffato, che
cambiò radicalmente la storia della letteratura brasiliana». Noi lo leggiamo
tradotto in italiano da Giorgio De Marchis e Gian Luigi De Rosa, edito da laNuovafrontiera nella collana
Liberamente.
Senza addentarci nelle storie e nelle
tipologie dei personaggi sia per non farci sfuggire qualche inevitabile
preferenza sia per non togliere la sorpresa -in questo caso il crescendo di
sorprese dovremmo dire- limitiamoci a citare i luoghi delle varie
ambientazioni: Argentina, Brasile, Cuba, Libano, Germania, Timor e Urugauy.
Troppi luoghi e troppe distanze? A dire
il vero, sono ancora di più per via degli intrecci, delle diverse provenienze e
del fiume di ricordi affiorati alla mente dei protagonisti. Manca un filo
conduttore se i profili tracciati sono così eterogenei? Viene meno quel quid
che caratterizza l’anima lusofona tanto ben descritta dall’opera di Ruffato?
No: gli ingredienti ci sono tutti, si vola in Angola come in altre ex colonie,
ci si scontra con gli spettri delle dittature e, soprattutto, la sensazione di
sradicamento sottende all’intera narrazione. V’è pure un ingrediente brasiliano
per eccellenza: l’alegria prorompente alternata alla saudade.
Perché il grande autore Ruffato e chi gli
porge i personaggi, benché due sconosciuti, si ritrovano in perfetta sintonia
grazie alle comuni origini. Se il primo dei due nei suoi precedenti libri ha
ben descritto la sensazione di chi si sente straniero in ogni luogo, il secondo
ne è il ritratto vivente. Il suo memoriale “Viagens à terra alheia” è anche il
bilancio di un uomo irrimediabilmente solo, pieno di ricordi, che non ha veri
amici e nessuno cui lasciare l’eredità o chi piangerà sulla sua tomba. Chissà
se aver offerto a Luiz Ruffato tante pagine di vita vissuta diventate un
romanzo -letto e apprezzato da migliaia di sconosciuti nel mondo- potrà
riscaldare il suo prossimo arco di vita almeno quanto emozionerà chi avrà la
fortuna di riviverle nel libro.
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